La strada di William Klein

Spesso riferendosi a William Klein lo si definisce il padre della fotografia di strada e questo è un errore da vari punti di vista, dei quali il più grave è sicuramente storico. La galleria Michael Hoppen a Londra presenta una mostra sul fotografo statunitense che segue a distanza di un anno la retrospettiva della Tate modern, una buona occasione per mettere dei puntini sulla vita e sulle influenze che Klein ha avuto e su quelle che ha lasciato nella storia dell’arte.

Klein nasce nella periferia di New York nel 1928 da una famiglia, come spesso succedeva all’epoca, di immigrati ebrei ungheresi. Il padre era un piccolo commerciante e dire che se la passavano bene sarebbe una bugia. Ad aggravare ulteriormente le condizioni economiche ci pensa la grande depressione che nel 1929 si abbatte come un fulmine a ciel sereno sui mercati statunitensi (e poi europei) mettendo la parola fine ai roaring twenties. Sarà la dura vita della periferia, sarà la crisi ma il piccolo William cresce precocemente tanto che a 14 anni si iscrive alla facoltà di sociologia del city collage of New York. Sarà la noia perché troppo sveglio, sarà la facoltà perché troppo difficile per un pre-adolescente, fatto sta che Klein non raggiunge la laurea e abbandona gli studi. Mette a servizio dell’esercito la sua abile mano di vignettista e grafico collaborando con il giornale Stars and Stripes realizzato all’interno dell’U.S. departement of defense e lavorando come operatore dal 1945 al 47 alla radio militare, impegno che lo costringe a spostarsi fra la Francia e la Germania. Finita la guerra il non ancora fotografo decide di rimanere a Parigi per studiare arte alla Sorbona. La capitale francese non è certo quella di un ventennio prima ma rimane piena di maestri a cui strappare qualche buon consiglio. Da ragazzo sveglio di periferia William entra subito in contatto con gli ambienti artistici francesi stringendo amicizia con Fernand Leger che gli tira un paio di diritte: lascia la pittura astratta (genere che Klein praticava con molta passione) e datti alla strada.

Lontano dall’aver seguito il consiglio, l’americano continua a dipingere e lo fa anche per l’architetto Angelo Mangiarotti che a Milano gli commissiona delle quinte rotanti per una scenografia. Altissimi panelli rettangolari neri solcati da linee bianche è la costruzione astratta che Kline realizza per l’italiano. Appoggiati su dei perni i quattro elementi posso arrivare a una rotazione completa di 360 gradi. Qui, il ragazzo di periferia, quello sveglio, il pittore che è stato anche militare, il giovane che parla due lingue, decide di diventare fotografo. Un’illuminazione improvvisa: i pannelli che girano, il movimento e l’impossibilità di rappresentare tutto questo con la pittura. Preso dal furore William si ricorda di quando Cartier Bresson gli aveva regalato una macchinetta fotografica, la cerca, la prende, si piazza davanti alle quinte rotanti, imposta un’esposizione lunga, inquadra e scatta. Prevedibile il risultato non è un’opera d’arte ma lui da lì capisce che se ha un senso usare la fotografia bisogna farlo come mai si è fatto fino a quel momento. Lascia i pennelli nel cassetto e si dedica totalmente alla causa. I suoi primi scatti sono per Domus, la rivista d’architettura di Giò Ponti, poi torna negli Stati Uniti, torna a casa, a New York dove per vivere fotografa per Vogue. È qui, nella grande mela, che Klein si ricorda del consiglio del vecchio maestro francese Leger: datti alla strada. E stavolta lo fa, sul serio.

Fedele alla linea Klein cerca nuovi modi di fare fotografia e parte proprio scardinando il patinatissimo mondo dello still life da passerella. Il fotografo prende le modelle, le veste e le getta in mezzo alla mischia urbana, fra i grattacieli e sull’asfalto, fra barboni o semplici passanti creando un vivo contrasto fra l’eleganza e la bellezza di una mannequin con dei comuni passanti. Vogue e il suo direttore Alexander Liberman impazziscono, tanto che lo stesso Liberman sostiene economicamente (carta fotografica e pellicola in quantità industriali) il primo libro fotografico di Kilne: Life in good and good for you in New York: trance witness revels. Il volume, meglio conosciuto come New York, esce nel 1956 per tre editori diversi: Editino de Seuil in Francia, Feltrinelli in Italia e Photography magazine in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti il libro non viene pubblicato, la grande mela vista da Klein è troppo squallida e sgraziata, lontana anni luce dal sogno americano e dal rappresentare una città simbolo di prosperità e crescita economica.

Gli scatti del fotografo ribaltano l’idea di reporter e alla scelta d’immortalare un fatto preferiscono non immortalare proprio niente. La poetica che regge l’intero volume è non provarci neanche a fermare qualcosa in uno scatto, piuttosto fare di tutto per non bloccare la vita che scorre oltre il mirino. Questo significa un paio di cose. La prima: la bellissima, equilibratissima composizione, le perfette messe a fuoco, il classico 45mm sono bannati. La seconda: l’idea della fotografia come la voleva Bresson, l’atto che unisce mente, cuore e occhio non viene minimamente preso in considerazione. Al loro posto si sostituisce una composizione caotica, viva, all’obiettivo base di ogni fotografo, Klein monta un teleobiettivo che raccoglie nella sua lente più persone, gesti e azioni possibili, alla calma di uno scatto ricercato c’è l’infinito flusso di click non tanto per paura di perdere l’attimo ma per paura di perdere il tempo. Nel libro allora le fotografie sono sfocate, il primo piano scompare, la grana della pellicola lo sostituisce, la grande mela o meglio il wild side che cantava Lou Reed è l’unico teatro possibile per questo genere di fotografie e il caso ha voluto che quel wild side fosse esattamente casa sua o che solo chi è di casa nel selvaggio poteva concepire un tale modo di scattare. Il libro ha un successo planetario e Klein comincia (continua) a girare il mondo raccogliendo di simili reportage per Tokyo e Roma dove tra l’altro era stato chiamato da Fellini come assistente per Le notti di Cabria.

Facile scambiare William Klein per il padre della fotografia di strada ma è una bugia. Da manuale il primo fotografo che segna uno stacco dal pittorialismo fotografico (genere nato agli albori della tecnica che scimmiottava la pittura e rappresentato perfettamente da Whilhem von Gloeden) è stato Albert Stieglitz. Al suo nome si lega la straight photography, tipologia di scatto che non prevede la messa in posa dei soggetti ma invita il fotografo a scendere per strada e catturare il bello del mondo così com’è. Stieglitz allora segna la svolta della pellicola che finalmente si rende autonoma dalla pittura trovando una sua natura specifica irrealizzabile con pennelli e colori. Sommo esponente del genere, un ventennio dopo, è proprio Bresson e compagni (per intenderci il filone francese definito umanistico). Composizioni perfette che sembrano riordinare il mondo, stampa impeccabile e uno spiccata dote per l’attimo perfetto. A rimescolare le carte in tavola ci pensa la seconda guerra mondiale. È Adorno che sintetizza il clima post bellico: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». La ricerca del bello non è più permessa, provare a raccontare qualsiasi cosa in modo oggettivo è impossibile. L’informale e il Nouveau roman sono espressioni artistiche di questo clima culturale.

La fotografia reagisce in maniera simile e se il mondo che conosciamo non è più possibile da rappresentare, l’artista gira la pellicola verso la sua vita, i reportage non sono più quelli di un Robert Capa ma diventano testimonianze di vita privata, l’unica ancora salvabile dall’abisso. Robert Frank è fra i primi, o comunque il più noto, a sviluppare questa tendenza testimoniata dal libro pietra miliare Les American, pubblicato per la seconda ristampa con un testo di Kerouac. Il volume presenta scatti on the road che sfuggono la bellezza come la peste, raccolti nelle pagine del libro come fosse un diario privato dell’autore, scatti strappati, attaccati con lo scotch, fotografie rovinate, stampate male o coperte di note dove la cosa più importante non è la vita ma il brandello che se ne può prendere. È da qui che viene William Klein che per quanto geniale sia stato il suo operato rimane comunque un anello di una catena che non inizia ne finisce con lui (vedi Nan Goldin).

Fino al 12 marzo; Foam’s 3h library, Keizersgracht 609, Amsterdam; info: www.foam.org