Le fotografie apparentemente algide di Cecilia Luci nascondono un mondo interiore molto sviluppato. L’artista presenta tre serie di lavori nella sua personale Made in water al Macro di Roma, a cura di Marco Tonelli e Fabiola Nardi. Nelle sue opere avviene un accesso all’intimità ricercata, si mescolano ricordo e realtà attuale, memoria e destino, si manifestano rigore e nostalgia, chiarezza e sguardo intricato, passione e sensibilità. Si coagulano sentimenti che concedono all’intensità un’opportunità di venire allo scoperto. Non è un caso che la storia familiare acquisti un peso rilevante: Luci è entrata in contatto con Alejandro Jodorowski e poi con Bert Hellinger e infine con Laura Quinti e Stefano Silvestri, fra il 2001 e il 2005; da qui è nata tutta la sua riflessione sulle costellazioni familiari e la psicomagia, riflessione che l’ha portata ad un percorso artistico e personale. La famiglia diventa luogo privilegiato in cui agire, in cui ritrovarsi e il passato diventa fonte d’ispirazione.
Le foto di Cecilia sono create all’interno dell’acqua, da cui il titolo della mostra: gli oggetti che sono immersi nell’acqua assumono posizioni e forme del tutto casuali. Ciò può far pensare al liquido amniotico, alla gestazione, alla maternità e ha riferimenti all’inconscio e ai campi morfici. Inoltre si può riconoscere nell’acqua una indicazione che conduce al fluido come “portatore emotivo”. Così gli Shanghai fotografati si riallacciano alla sua memoria interna, sono uno dei giochi preferiti della sua infanzia. Qui si assiste a una sottrazione progressiva del riconoscimento dell’icona nella direzione di un’astrazione equilibrata e trattenuta. Nella serie In acqua Luci si sofferma cavi d’acciaio che richiamano quelli dei tralicci della luce, e ciò ha una ragione: questi cavi creano un collegamento, così come le nostre azioni e la nostra realtà sono collegati non solo ai ricordi personali, ma anche a ciò che i nostri avi hanno attraversato. In acqua va a toccare tematiche che mettono sullo stesso piano la vita e la morte con un lavoro focalizzato sui circuiti celebrali e sull’anatomia della memoria. Nella serie Io non sono più l’artista usa vetri frazionati che appartenevano a due opere precedenti, che andavano a formare il lavoro Radici, che si sono rotte per caso: ciò che capita si trasforma nelle nostre mani e può diventare altro. Le cromie delle fotografie di Luci sono diverse, ma non c’è post-produzione realizzata con il computer, semplicemente l’artista utilizza filtri di colori differenti decisi precedentemente allo scatto. Tutte le opere di Luci sono al limite fra oggetto e astrazione, in una sublimazione dell’inconscio
Fino 7 settembre, Macro, Roma, info: www.museomacro.org