Dopo la personale dedicata a Rudolf Stingel, la più importante monografica europea incentrata sull’artista, la fondazione Francois Pinault è immersa in tre importanti mostre. Continua a Punta della dogana, Prima materia, curata da Caroline Bourgeois e Michael Govan, evento che raccoglie un insieme di circa 80 opere, dal 1960 a oggi, realizzate da artisti della collezione Pinault come Alighiero Boetti, Bruce Nauman, Adel Abdessemed, Pietro Manzoni, Mario Merz e Koji Enokura. Palazzo Grassi, invece, è protagonista con il nuovo progetto L’Illusione della luce dove la fondazione si propone di esplorare i valori fisici, estetici, simbolici, filosofici, politici legati a una delle realtà essenziali dell’esperienza umana, la luce. Elemento capace di trasformare l’invisibile in visibile, ma allo stesso tempo se abbagliante, nel momento della sua massima intensità, annulla il senso della vista. Unendo questi estremi, si mette in scena, attraverso le opere di venti artisti, la profonda ambivalenza della luce, la sua straordinaria ricchezza di significati e di valori. Il visitatore è in grado di percepire sfumature lungo un percorso di vera scoperta nella moltitudine di sinonimi del verbo “illuminare”, da accendere, analizzare, animare, brillare, chiarire, decifrare, a irradiare, guidare, risplendere, scintillare o allietare.
Ad aprire la mostra, un’opera realizzata dalla californiano Doug Wheeler per l’atrio del palazzo occupandolo completamente. La luce qui si fa materia, ridefinendo lo spazio e il tempo, annullando i riferimenti percettivi tra miraggio e realtà. Con approccio più minimale e distaccato, anche Robert Irwin sublima le superfici mediante la luce, utilizzando tubi di neon, materiali industriali lasciati a vista. Nel lavoro di Dan Flavin il rapporto con l’architettura rimanda alla storia delle avanguardie, alla figura eminente del costruttivista russo Vladimir Tatlin. Utilizzando materiali poveri e fragili, l’installazione di Vidya Gastaldon è un contrappunto delicato e gioioso a questi esperimenti di trasformazione dello spazio. Julio Le Parc, dagli anni sessanta uno dei principali protagonisti della Op art, gioca sulle potenzialità ipnotiche e cinetiche, invece gli effetti luminosi della Marquee di Parreno sovvertono vertiginosamente il sistema di segni su cui si fonda il mondo dello spettacolo, evocandone al tempo stesso l’immediatezza, la vacuità e l’irresistibile potere di attrazione.
Antoni Muntadas e Robert Whitman si concentrano sulla sua forma apparentemente più semplice e modesta, la lampadina elettrica, e trasfigurano un oggetto banale materializzandone la dimensione onirica. Il film di Bruce Conner esercita un fascino mischiato all’orrore. Realizzato a partire da riprese effettuate nel 1946 dal governo statunitense durante il primo test nucleare nell’atollo di Bikini, l’opera offre un punto di vista cupo e impegnato sul mondo. Segnati da approfondimenti in effetti diversi, fondate su media e registri radicalmente opposti, le opere di Sturtevant e Bertrand Lavier, instaurano qui un dialogo lungo un medesimo riferimento storico-artistico, quello all’artista americano Frank Stella, ed esplorano la dialettica nero/colore e oscurità/luce. Claire Tabouret si riallaccia invece a Paolo Uccello e al Rinascimento, proponendosi di evocare in un unico dipinto una pluralità di luci, dal giorno alla notte. I dipinti neri di Troy Brauntuch sfiorano i limiti stessi del visibile, per gridare il desiderio di vedere ogni cosa. Al contrario, General Idea rappresenta il bianco abbagliante per dare forma alla minaccia incombente dell’AIDS. Le opere di Marcel Broodthaers e di Gilbert & George parlano delle nostre paure primarie, anzitutto della morte. Eija-Liisa Ahtila ci invita a un’indagine introspettiva. Sempre una profonda ricerca è presente su una storia collettiva: quella dell’Africa di oggi, evocata da David Claerbout, e della primavera araba, rappresentata da Latifa Echakhch, o del colonialismo, con cui ci invita a confrontarci la grande installazione di Danh Vo, che coinvolge e sconvolge la grande sala centrale del piano nobile.
Palazzo Grassi ospita anche una una terza mostra della fondazione, in questo caso dedicata Irving Penn con Resonance, a cura di Pierre Apraxine e Matthieu Humery. La prima grande esposizione dedicata al fotografo statunitense in Italia. Al secondo piano della location veneziana, 130 scatti dalla fine degli anni ‘40 fino alla metà degli anni ’80. È la prima volta che l’istituzione presenta una mostra di fotografie dalla collezione. Una parte di queste immagini provengono dalla collezione di Kuniko Nomura, raccolte durante gli anni Ottanta con l’aiuto di Irving Penn stesso. Oggi si vogliono ripercorrere i grandi temi cari all’artista che, al di là della diversità dei soggetti, hanno in comune la capacità di cogliere l’effimero in tutte le sue sfaccettature. Esempio eclatante, la selezione dedicata alla serie dei Piccoli mestieri, realizzata in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra negli anni ‘50. Convinto che quelle attività fossero destinate a scomparire, Penn ha immortalato nel suo studio venditori di giornali ambulanti, straccivendoli, spazzacamini e molti altri ancora, tutti in abiti da lavoro. Allo stesso modo, ritratti dei grandi protagonisti del mondo della pittura, del cinema e della letteratura realizzati tra cui Pablo Picasso, Truman Capote, Marcel Duchamp, Marlene Dietrich, esposti accanto a fotografie etnografiche degli abitanti della Repubblica di Dahomey, delle tribù della Nuova Guinea e del Marocco, sottolineando con forza la precarietà dell’esistenza dagli esseri umani che siano ricchi o poveri, celebri o sconosciuti.
Tutte le mostre fino al 31 dicembre 2014; punta della Dogana e palazzo Grassi, Venezia; info: www.palazzograssi.it