Oltre 770 esibitori da una trentina di paesi, 6.500 visitatori e più di 400 proiezioni, tra le quali un’ottantina di prime internazionali. Sono questi i grandi numeri del Filmart di Hong Kong che dal 24 al 27 marzo presenta nella ex colonia inglese il meglio delle produzioni cinematografiche e televisive, non solo asiatiche. L’evento rappresenta la punta di diamante del decimo Entertainment expo, dedicato all’intrattenimento, assieme all’edizione numero 38 dell’International film festival (Hkiff) e all’Hong Kong Asia film financing forum (Haf). Ad aprire il duplice evento dell’expo e dell’International film & tv market, nel foyer del Convention and exhibition centre (Hkcec) di Wan Chai, è stato il capo dell’esecutivo, Chun-ying Leung, preceduto dall’uomo forte dell’economia cittadina, Jack So, presidente del consiglio per lo sviluppo economico della regione amministrativa autonoma, con un codazzo di celebrità locali tra cui miss Hong Kong 2013: una sfilza di nomi che poco direbbero al pubblico italiano, e tanto vale omettere.
C’era la folla delle grandi occasioni alla doppia cerimonia d’apertura nel foyer dell’avveniristico centro conferenze che si specchia sulle acque della baia: una messe di addetti ai lavori e torme di ragazzini urlanti a caccia d’autografi, belle figliole poco vestite, galantuomini in smoking e giornalisti imbucati. Soprattutto, bon viveur e bella gente, il meglio della ricca borghesia di questa città che assieme alle metropoli dell’est, Shanghai e Pechino, traina lo sviluppo della madrepatria cinese, vale a dire dell’economia mondiale. Strano mondo irto di grattacieli e zeppo di ogni vizio delle metropoli asiatiche. Ma la Cina, qua, pur essendo assai vicina – il confine è a un passo, poco oltre la penisola di Kowloon – è quanto di più distante dalla mente e dai desiderata della gente. In effetti pare d’essere in una qualunque chinatown inglese, una sorta di terra di nessuno dove ogni cultura, ogni odore e sapore marciano a braccetto, a suon di dollari. Pub di sbevazzoni inglesi urlanti a perdita d’occhio, fianco a fianco con sexi club che promettono mirabilie, massaggi thai a quattro spicci e cucina italiana di buon livello. Come quella del ristorante al sesto piano dell’Arts centre, il Centro per le arti cittadino, ottimo e con vista sulla baia.
Ma torniamo al filmart e alle sue anticipazioni. Ieri era la volta della prima per eccellenza, Aberdeen, del regista Pang Ho-cheung, interpretato tra gli altri – stavolta i nomi sono d’obbligo – da Louis Koo, Gigi Leung, Eric Tsang e Miriam Yeung (nella foto con il regista), col cast al gran completo in sala, e poi di corsa per il red carpet e la proiezione al Centro culturale di Tsim Sha Tsui, di là dalla baia. Al centro della pellicola, tre generazioni di una famiglia hongkonghese, uno spaccato della borghesia cittadina e un quadro della metropoli, tra ricerca d’identità generazionale e sprazzi di visioni oniriche. Un ottimo biglietto da visita per una città desiderosa di mettere qualche punto fermo in casa per farsi riconoscere all’estero: «Abbiamo scelto Aberdeen perché è un film di che ci piace», spiega Roger Garcia, direttore esecutivo dell’Hong Kong international film festival society, «e naturalmente perché Pang è un regista di Hong Kong al 100 per cento, anche se lavora in Cina». Ricerca d’identità e affermazione di sé, appunto. A fare da corollario ad Aberdeen che difficilmente vedremo sugli schermi nazionali, come gran parte delle opere in sala, sono un’ottantina di prime, oltre a centinaia di proiezioni minori, tavole rotonde e meeting di settore, in un via vai ininterrotto dal mattino presto alle prime luci della sera. Che qui, come nel resto della Cina, dalle sei si cena anche se non si va a letto con le galline.
Qualche titolo, tra i più interessanti: The midnight after, di Fruit Chan, anche lui hongkonghese, l’altra anteprima di spicco. Poi 40 days of silence di Saodati Ismailova, Blind Massage di Lou Ye, Homeland di Kubota Nao, Jossy’s di Fukuda Yuichi e The losers, di Lou Yi-An, insomma il meglio della produzione cinese, coreana, giapponese, malese oltre che, ovviamente locale. Ma anche qualche pellicola d’Oltreoceano, come il francese Abuse of wekness di Catherine Breillat e Stations of the cross di Dietrich Bruggemann, dalla Germania. L’intero programma è su www.hktdc.com/hkfilmart. L’Italia partecipa con diverse opere: La santa di Cosimo Alema, The mafia kills only in summer di Pierfrancesco Diliberto, The chair of happiness di Carlo Mazzacurati e Border di Alessio Cremonini, tutti col marchio Rai trade, e due opere di marca Fandango: I can quite whenever I want di Sydney Sibilia e The fifth wheel di Giovanni Veronesi. Ma soprattutto, all’Italia è dedicata una delle tavole rotonde ad hoc: filming in Italy, il 26 pomeriggio. A riprova di come l’attenzione verso il nostro paese, come location per le riprese e livello delle produzioni cinematografiche, sia tutt’altro che scemata anche in questo spicchio di mondo che marcia a distanze siderali dalla nostra.