Gianni Piacentino a Roma

Diceva Henry Ford: «Se non c’è non si può rompere». Verità banale e incontestabile che se associata alla progettazione e costruzione di automobili (le prime automobili) da vita a quell’eleganza spartana: pura fusione di estetica minimale e funzionalità frutto di una mentalità pragmatica come quella che solo uno statunitense poteva ( e in parte può ancora) avere. Forma mentis del resto non dissimile da quella che muove l’opera di Gianni Piacentino, molto più del razionalismo tedesco, base concettuale di tutto il Bauhaus, riassunto perfettamente da Van der Rohe con il suo proverbiale less is more. Perché quello che costruisce Piacentino non sono edifici ma mezzi elementari di trasporto ai quali è stato tolto tutto, non raramente la possibilità di muoversi, e parafrasando Ford: «Se non si tocca non si rompe».

La fondazione Giuliani a Roma espone una corposa retrospettiva dell’artista, già presentata al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, che traccia il folle percorso del creativo che abbandonalo il gruppo dell’arte povera si dedica alla costruzione di due ruote non funzionali. Ora, è facile parlare con il senno di poi, ma proviamo per un attimo a capire questo passaggio. Piacentino entra nel gruppo di Celant poco più che ventenne, partecipa a qualche mostra con gli esponenti ottenendo un certo successo e poi se ne chiama fuori. Uscito, quello che fa, non è proporre un’arte totalmente antitetica al movimento (come un Carrà con il futurismo per dire) ne, d’altro canto, continua con gli stessi intenti, ma si prende il suo tempo, pensa, e si mette a ragionare sulla poetica profonda dell’arte povera e capitala la conduce all’estremo. Per Piacentino povertà significa non funzionalità.

Chiaro che già dalle sue prime opere poversite possiamo rintracciare quello che sarà il suo cammino, il più essenziale fra gli essenziali verrebbe da dire, l’unico poverista che non maschera materiali artificiali ad aspetto naturale ma li presenta così nella loro verità plastica, al massimo li colora, come i pali rosa, i tavoli marroni ecc. Da qui a mettere due ruote a un’asta è un passo, passo che l’artista non ha paura di fare, rifare e confermare fino ai giorni nostri.

Quello che differenzia le sue creazioni motorie, se così le vogliamo chiamare, è il riferimento estetico, unica cosa che conta dato che i lavori non camminano, riferimenti che spaziano da un immaginario degli anni Trenta fino alla recenti elaborazioni del design. È questo il percorso che viene messo in scena nella fondazione Giuliani curato Andrea Bellini.

Fino al 5 aprile; fondazione Giuliani, via Gustavo Bianchi 1, Roma; info: www.fondazionegiuliani.org