Hantaï, tocchi di antipittura

«Io vengo dopo la forbice e il bastone». La forbice era di Matisse, il bastone di Pollock e pochi giudizi sono al contempo esatti e tranchant come questo che Simon Hantaï dava di sé. Figlio di contadini ungheresi non digiuni d’arte – il nonno, clavicembalista, suonava alle feste di paese, i suoi cinque figli ne erediteranno l’amore per la musica – Hantaï (Bia 1922, Parigi 2008), ex militante comunista, alla fine del secondo conflitto mondiale scampa all’Ovest prima che sull’Est si chiuda la cortina di ferro e al suo paese, reo d’essere un fido alleato hitleriano, sia imposta la forzata russificazione. Prima in Italia, a Roma, poi in Francia, a Parigi, dove resterà fino alla morte ed eleggerà a seconda patria (sarà naturalizzato nel ’66). Personaggio difficile, quello che è forse il più pollockiano degli artisti francesi ebbe la singolare ventura d’essere stranoto non solo per le sue stramberìe, ma per la sua pittura, lui che tutto fece per svilire questa al suo massimo, facendo di tutto pur di non esporsi in pubblico. Cosa che, dopo la presenza alla Biennale di Francia nell’82, gli riuscì quasi in pieno. Ma sono imperscrutabili i destini dell’uomo, quasi quanto la volontà degli dèi, così ecco che dopo l’esposizione che il Centre Pompidou ha dedicato all’artista l’anno scorso, una selezione di 40 opere arriva in Italia, nella Roma da lui percorsa e amata, per una mostra che è in qualche modo un ritorno alle origini, nelle intenzioni del curatore, Éric de Chassey: «La visita della prima retrospettiva postuma mi ha convinto della necessità di offrirne un prolungamento romano. Mostrare in Italia il lavoro di Hantaï vuol dire riportarlo in uno dei luoghi che hanno contribuito alla sua nascita; qui, infatti, soggiornò a lungo nel 1948 arrivando dal suo paese d’origine, l’Ungheria, e prima di giungere a quello che sarebbe diventato il suo paese di destinazione, la Francia».

La retrospettiva che prende le mosse all’Accademia di Francia a cura del suo direttore è dunque la prima nel nostro paese e si apre alle grandes galerie, come già al Pompidou, con una Peinture pollockiana degli anni Cinquanta e una Tabula blu degli anni ’70, vis à vis. In mezzo e nel prosieguo, i suoi Pliage che hanno fatto scuola: tele che rimandano una pittura all’apparenza vecchia, stantia, eppure così contemporanea nel mostrarsi iperconcettuale fino all’evanescenza della pittura in sé, astratta al punto da essere metodo e punto di riferimento almeno per una generazione di artisti. Continui sono i rimandi alla fede nelle sue grandi tele vergate di scrittura indecifrabile e minuta, la matrice ebraico-cristiana del suo pensare: come la croce e la stella di Davide, più la macchia d’inchiostro del calamaio versato da Lutero, nella grande Écriture rose, ancora della fine degli anni ’50, o l’immensa croce di A Galla Placidia, o Le lacrime di sant’Ignazio. E qui esce fuori il primo metodo di Hantaï, dopo la breve avventura tra i surrealisti, patrocinato da André Breton: tocchi con un cucchiaio di latta, un pezzo di sveglia, a scarnificare la pittura sottostante, a disvelarne l’essenzialità. Poi, negli anni ’60, arrivano i Pliage dall’effetto fogliame, le Mariales o Mariane, e i successivi assai più colorati, ottenuti piegando una tela a terra, colorandola e pressandola con un rullo, per ottenere al dispiegamento un effetto di casualità che rimanda a Pollock in quanto a metodo, distaccandosene però riguardo agli esiti.

Punto di connotazione e transito del suo fare artistico, gli spiegazzamenti di Hantaï virano decisamente, nel decennio successivo, verso i tabulati, le Tabulas dai cromatismi vivaci come mai prima d’allora, tele annodate al rovescio e dall’effetto eminentemente grafico. È della metà del decennio la sua prima e unica retrospettiva in vita al Pompidou. Poi, dopo la Biennale, taglia i ponti col pubblico e si rifugia in un isolazionismo che non lo mette al riparo dagli esegeti, né dalla fama. Per la successiva retrospettiva al Pompidou bisognerà attendere l’anno scorso, come detto, a cinque anni dalla morte. Da tempo Hantaï ha abbandonato le scene, rifiutandosi di esporre in pubblico, portando alle estreme conseguenze la sua antipittura, il desiderio di umiliarne ogni senso estetico. Prima con le Laissées, gli escrementi – termine mutuato dal linguaggio venatorio francese – di opere precedenti, tele tagliuzzate e riproposte in una nuova cornice. Poi con le serigrafie e le Ecritures su tela di testi, di Derrida o altri filosofi. Ma dove massima è l’umiliazione della pittura è nei Pilages à usage domestique: spiegazzature o intelaiature sic et simpliciter di stracci da cucina e da latrina, materiali da donna delle pulizie non a caso mai esposti, ma pur sempre troppo «carini», a dire dell’artista, per la sua idea di pittura da immiserire a oltranza, in nome dell’arte. Un intento racchiuso appieno nell’ultima saletta dove, per dirla come De Chassey, è «percepibile la maniera in cui Hantaï, per continuare la pittura, sia stato costretto nel contempo ad aprirla a ciò che essa non era, in particolare alla scrittura, alla fotografia e alla filosofia e a umiliarla, a ridurla cioè alle sue componenti più bassamente materiali, per farne paradossalmente sorgere uno splendore prodigioso».

Simon Hantaï, a cura di Éric de Chassey, dal 12 febbraio all’11 maggio, Accademia di Francia, Villa Medici, viale Trinità dei Monti 1, Roma. Info: www.villamedici.it.