Il silenzio come proprietario

«Ma la guerra è finita, obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. Guerra è sempre, rispose memorabilmente Mordo Nahum». Nel 1963 Primo Levi pubblica La tregua il racconto del suo viaggio di ritorno dopo essere scampato alla morte nel campo di sterminio di Auschwitz. Un’odissea interiore quella di Levi dove angoscia, paura, speranza si intrecciano, dove la tregua innesca una sospensione, una riflessione sull’essere umano e su cosa significa perpetuare la memoria di un orrore che ha cambiato il concetto stesso di umanità. La tregua appare come un’interruzione, una sorta di limbo dove il tempo non agisce più nella sua misura reale, è la sensazione che ogni cosa sia rimasta al suo posto per dare testimonianza di sé, per fare in modo che non venga dimenticata. Yuri Dojc, fotografo cecoslovacco, nel 1997 durante i funerali del padre incontra un superstite della Shoah, questo evento scaturisce una svolta nella sua carriera e decide di voler immortalare i reduci dei lager nazisti, di divenire egli stesso testimone e custode di una memoria preziosa da difendere.

Nel 2006 Dojc visita una scuola abbandonata in Slovacchia, Last Folio, il progetto espositivo inaugurato il 23 gennaio alla Ermanno Tedeschi gallery di Roma, è il frutto di questa scoperta sorprendente, l’edificio, fermo dal 1942, diviene un monumento solenne, il testimone perfetto per narrare le sorti della comunità ebraica locale. Dojc esplora il luogo abbandonato con una dovizia di sguardo penetrante dove l’attenzione è posta su ogni singolo dettaglio: i testi ebraici consumati dal tempo, le pagine rimaste immobili, l’architettura pregiata in decadenza, il silenzio che dal 1942 è divenuto l’unico proprietario dello spazio circostante. Negli scatti di Dojc è rappresentato un altrove che non conosce tregua, un luogo differente da quello della vita, è il luogo dell’oltranza dove l’ignoto germina i suoi segni, dove il tempo ha lasciato le sue ferite profonde. In quelle rovine dove classi di alunni popolavano lo spazio, vi è il sentore di un destino tragico, in quei luoghi dove avrebbero dovuto germinare nuove menti la distruzione ha lasciato la sua impronta in cui non vi è più testimonianza umana, sono gli oggetti gli unici testimoni di una cronaca di terrore.

Lo sguardo di Dojc coglie in profondità la relazione tra le cose e le persone che un tempo ne erano proprietari, la memoria si nasconde tra le pieghe di un libro, tra le pagine corrose di un volume rimasto aperto, tra gli anfratti remoti della scuola abbandonata. L’identità dei luoghi che il fotografo ha immortalato si intrecciano con le vite di chi li ha attraversati e abitati, la memoria è il procedimento di congiunzione che innesca la ricerca della verità, l’essenza stessa nel sondare la storia. Le fotografie di Yuri Dojc ci aiutano a ritrovare identità altrimenti dimenticate, svelano i risvolti nascosti della ricerca storica ufficiale, aprono porte insondabili che rivelano trame, abbattono muri di omertà e lasciano allo spettatore il compito di perpetuarne la testimonianza. «Sognavamo nelle notti feroci sogni densi e violenti sognati con anima e corpo: tornare; mangiare; raccontare. Il comando dell’alba: “Wstawać”; E si spezzava in petto il cuore. Ora abbiamo ritrovato la casa, il nostro ventre è sazio, abbiamo finito di raccontare. È tempo. Presto udremo ancora il comando straniero».

Fino al 28 febbraio; Ermanno Tedeschi Gallery, via del Portico d’Ottavia 7, Roma; info: www.etgallery.it

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