Sensibilità geometriche

Parlare con Shigeru Saito è come ricevere la chiave per accedere a un mondo che in condizioni normali ci è precluso. Un mondo fatto di passione e di umiltà, qualità che si confanno a una personalità lontana anni luce da quella occidentale, in cui un diverso ritmo governa lo scorrere del tempo, in cui le parole pesano quanto i pensieri. Nulla è detto a caso e tutto lo è. Ancora non scrive alla perfezione in italiano Saito, eppure nel parlare di sé, nel raccontare per iscritto la sua vita nel dettaglio, la grammatica passa in secondo piano, perché si è avvinti dalla lettura come da un bel romanzo biografico.

Saito è nato in Giappone, sia suo nonno sia suo padre erano meccanici, ma lui, da quando aveva quattro anni, prendeva matita e carta bianca e preferiva disegnarle le automobili piuttosto che aggiustarle. Per questo al momento di iscriversi all’università, non ebbe alcun dubbio: la facoltà di design dell’università di Tokyo faceva a caso suo. Perciò, afferma ironicamente l’artista: «Invece di andare al campo di automobile, sono entrato al campo di mobili». Inizia così la carriera di Saito, le cui tappe sono i gradini di una scalinata in salita, resa a ogni passo più ripida dalla sua sete di conoscenza, scandita da ciò che la coscienza gli suggerisce: di dover apprendere sempre di più, di non sapere mai abbastanza. Da questa sensazione di inadeguatezza deriva il suo desiderio di imparare a utilizzare gli strumenti per lavorare la materia, in particolare il legno, con cui è amore a prima vista, di cui tutto lo appassiona: «sentire il profumo, la temperatura, la dolcezza al tatto, il suono quando lo scolpisco». All’Università conosce la persona che cambierà il corso del suo destino, Kunio Kondo, scultore e professore della cattedra di architettura tradizionale giapponese, nonché grande amico di Enrico Castellani. Con lui Shigeru stringe un legame ben più profondo di quello semplicemente professionale: è da lui che trae ispirazione nell’uso delle forme geometriche ed è in casa sua che vede per la prima volta le superfici estroflesse e introflesse di Castellani, le sue sperimentazioni volumetriche sulla tela, le simmetrie regolari e matematiche, rimanendone profondamente colpito. Dopo la morte del maestro, Saito decide di venire in Italia per conoscere Milano, la patria del design e per andare a trovare Castellani, dovendogli comunicare la scomparsa del collega e amico. Tuttavia non fa quello che tutti avrebbero fatto (prendere un volo per arrivare in Italia il prima possibile) ma aspetta, inizia a studiare la lingua italiana per essere davvero “pronto” quando conoscerà Castellani. Nel 2001 finalmente l’incontra e da quel momento l’artista e l’Italia resteranno radicati in lui per sempre.

Shigeru si rende presto conto che purtroppo non si può vivere di sola scultura e, per guadagnare quattro soldi in più, arrotonda facendo il falegname e dedicandosi in Giappone alla coltivazione del suo orto: «facevo comunque avanti indietro tra Italia Giappone – spiega – ma dal periodo di seminatura di riso fino al raccolto, stavo sempre in Giappone. Ci vuole un sacco di lavoro, ripagato da una tranquillità e soddisfazione che non so come esprimere. Le conversazione con la terra sono infinite». La stessa tranquillità la trasmette attraverso le sue sculture, che si situano nello spazio con un rigore appartenente a un’austerità solenne, e che tuttavia mostrano un’estrema attualità e un decorativismo provenienti dalla disciplina del design e una leggerezza che pare derivata dalla tecnica degli origami. Sono tanti i volti di questo artista, ma tutti convergenti nei suoi lavori, in cui le influenze esperienziali personali s’intrecciano con la matematicità equazionale del disegno e della progettazione geometrica. Laddove la poesia incontra la scienza, v’è un labile confine che mette Saito in bilico tra la ricerca di una profonda concettualità intima e l’evidenza della semplicità logica: «Un giorno, ho visto che i cinghiali si erano mangiati il mio riso, le zucche, le patate. Mi avevano rubato il mio pranzo e la mia cena. Allora mi sono detto: adesso io devo mangiare immediatamente loro per la mia cena». Nei loro numerosi incontri Castellani gli presenta Bruno Corà, professore e studioso dell’Università di Cassino e da questo sodalizio nasce l’idea per una mostra. Saito inizia a lavorare nel capannone del giovane Camusac, ancora non aperto al pubblico, accolto dalla famiglia Longo, dalla quale viene battezzato Gennaro, per la difficoltà nel pronunciare il suo nome.

Risultato, la mostra Infinito Riflesso, al museo d’arte contemporanea di Cassino fino al 12 di gennaio, che costituisce un altro scalino per l’artista che, il quale ha avuto il privilegio di mettere a confronto i suoi lavori con le tele storiche di Castellani. L’esposizione è dialogante, ma nelle opere, che pur si richiamano fra loro e si riflettono, sia in senso simbolico sia reale – attraverso le superfici specchianti –, v’è un tocco differente, papabile in ogni forma: «Le opere parlano da sole – dice l’artista – è tutto lì». Saito, pur traendo ispirazione dagli studi di Castellani sullo spazio, trattenendone poesia e intensità, prende autonomamente la sua strada, trasformando i rilievi della superficie telata dell’artista italiano (non più quadro e non ancora scultura) e i suoi reticoli geometrici in oggetti dotati di vita propria. Probabilmente anche lui bisognoso di quell’indiscutibilità e ininterpretabilità ricercate da Castellani, si rifugia negli assiomi geometrici, e tuttavia neanche lui riesce a rimanere impersonale. Trapela dalle sue forme meticolosamente eseguite un sentimento che esula dalla freddezza del design e dal rigore matematico e che lo spinge, come Castellani e come Fontana, a raggiungere l’infinito senza diventare spiritualista.

La mostra è quindi una sintesi formale tra passato e presente, che positivamente svela come la contemporaneità sia ancora capace di nutrirsi di suggestioni poetiche e di comunicare attraverso uno stretto contatto con la materia, di qualunque tipo essa sia: «Per il momento sono in Italia, il paese del marmo, quindi adesso lavoro con il marmo, oppure il metallo, in modo da consentire alle mie opere una durabilità all’esterno. Purtroppo il legno ha questo inconveniente, si deteriora se esposto agli agenti atmosferici.». Anche l’artista giapponese Kan Yasuda, trasferitosi in Toscana, ha iniziato a lavorare il marmo, e a lui Saito rassomiglia nella scelta di realizzare opere monumentali che rimangono minimalistiche nella loro composizione, tuttavia senza levigare le forme con superfici arrotondate, ma sviluppando la materia in forme ben più articolate. Forse Saito ingenuamente pensava di poter trovar fortuna in Italia, ma è da due anni che combatte affinché gli venga rilasciato il visto. Chissà, qualcuno l’avrebbe dovuto avvertire per tempo.

Fino al 12 gennaio, Camusac,  Via Casilina Nord 1, Cassino; info: www.camusac.com

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