Tir trionfa al festival di Roma

Alberto Fasulo si aggiudica il Marc’Aurelio d’oro al festival internazionale del film di Roma per il docufilm Tir, opera italocroata sceneggiata dallo stesso Fasulo assieme a Carlo Arciero, Branko Završan (che ricopre anche il ruolo del protagonista del film) ed Enrico Vecchi. Un film malinconico basato sulla storia di Branko, ex insegnante di Rijeka e ora camionista; una scelta di necessità che comporterà il vantaggio di acquisire un benessere economico maggiore ma che porterà strascichi di forte solitudine, nell’impresa di portarsi avanti con ostinazione in un mestiere che diviene sempre più opprimente e schiavizzante. Tir è un sasso tirato addosso allo spettatore per la drammaticità della narrazione, un profilo duro di un personaggio che vive in solitudine e al quale gli unici contatti con la famiglia sono “permessi” telefonicamente. La famiglia resta però la spinta dominante per riuscire ad affrontare un lavoro massacrante, che toglie dignità. Per assurdo sarà proprio il protagonista con la sua determinazione e caparbietà a restituire decoro ed elevare quel mestiere stesso. Il film si muove su basi documentaristiche che rendono la visione ancor più reale e deprimente. Il patetico ruolo che Branko ricopre, cioè quello di nobilitare un lavoro anziché il contrario rappresenta uno dei principali problemi della società in cui attualmente si vive. Dominante nel film è la necessità di resistere, imporsi scelte di vita quasi rassegnate perché così deve essere e non esiste altra alternativa, dover reggere con stremo le ore in più richieste da un’azienda di trasporti per cui si è dipendenti. Tir è un documentario attuale, frutto di anni di ricerce sul campo; un risultato che fa riflettere e che lascia aperti a chi guarda molteplici passaggi di pensiero. L’asfalto che il protagonista percorre ha lo stesso colore delle sensazioni che si percepiscono viaggiando con Branko. Dobbiamo noi riuscire a comprendere con chiarezza se la speranza si trova nella rassegnazione, nel senso del dovere o nell’affetto che proviamo verso altri. Tir nella descrizione deve comunque servire a far scuotere gli animi, a porsi questioni sociali e politiche. È necessario sì prenderne atto ma probabilmente non accettare da spettatori le condizioni di vita nelle quali siamo immersi perché in fondo così è e deve essere. Uno sguardo ottimista verso il futuro è comunque necessario, magari è momentaneamente accantonato ma dovrà tornare assumendo nuove sembianze.

Nella giornata di ieri le ultime proiezioni si sono susseguite all’Auditorium. Tra queste l’atteso The mole song, pellicola del regista di culto Takashi Miike tratta da un popolare manga giapponese. Reiji Kikukawa, interpretato da Toma Ikuta, è il poliziotto più inefficiente di tutto il corpo della polizia, nonostante questo è a lui che viene affidato l’arduo compito di riuscire ad entrare a far parte di un’organizzazione criminale implicata nello spaccio di droghe al fine di riuscire a catturare il famoso boss del clan Sukiya-kai Shuho Todoroki. Il regista nipponico Takashi Miike si ispira all’omonimo manga e realizza un film dal forte potenziale perché farcito da molteplici generi cinematografici che evitano di scadere nel ridicolo. Un’opera demenziale e grottesca che diverte a colpi di musical, azione e commedia e in cui scene troppo violente non riescono ad intaccare l’intero seguire del film perché si affacciano allo schermo per poi “ritirarsi” nei tempi giusti, lasciando immediatamente posto a un ulteriore genere filmico. Il protagonista affronta una staffetta a ritmo serrato nella quale la fotografia graffia in maniera esponenziale ma riesce a non disturbare la visione, in un turbine di colori degno dei migliori cartoni animati giapponesi. Ed è proprio in un cartone animato che spesso sembra di essere, in quei centotrenta minuti che non lasciano spazio al ridicolo poiché le espressioni filmi che riescono nella difficile impresa di scansare il ridicolo. La sceneggiatura di Kankurô Kudô è ben scritta e nonostante il film possa definirsi d’azione i dialoghi risultano presenti, ben costruiti e appoggiati sull’interpretazione di personaggi ben delineati e strutturati in maniera completa. Reiji rappresenta quel tipo di eroe che trova un equilibrio proprio nel disequilibrio della sua apparante inettitudine; è un personaggio dai forti principi morali, un buono che lascia libera interpretazione riguardo al fatto che lo spettatore non riesce a capire con totale lucidità se sia un buono deciso oppure incosciente. Ad ogni modo, parafrasando una massima del film, è un personaggio che nella vita riesce a seminare e a raccogliere bene. Maurizio Tedesco e Steve Della Casa girano un’opera che vuole essere fondamentalmente una dimostrazione d’affetto rivolta al cosiddetto cinema trash e che percorre un arco di tempo che parte dagli anni sessanta e termina negli anni ottanta; I Tarantiniani. Documentario caratterizzato da una particolare continuità visiva e che smentisce i luoghi comuni su questo determinato genere autorale. Tedesco e Della Casa in effetti realizzano, complici soprattutto le interviste Enzo G. Castellari, Lamberto Bava, Ruggero Deodato, Tomas Milian, Mario Caiano, Sergio Leone e altri un film che restituisce nuova dignità a quei prodotti cosiddetti di serie B ma che, contrariamente a quanto si possa pensare, hanno portato nuovi aspetti nel cinema soprattutto verso il genere horror, western e poliziesco. È un viaggio divertente dedicato inoltre a Quentin Tarantino, appassionato nello specifico di questo nostro filone cinematografico e grazie al quale è stato possibile uscire da una certa concezione che rifletteva un parere generalmente negativo verso film cosiddetti trash. È comunque indubbio che registi appartenenti a questa categoria, assieme alla complicità di attori che sono stati determinanti, hanno saputo destreggiarsi in un’epoca dove l’inventiva e l’arte di arrangiarsi era d’obbligo; causa soprattutto budget economici limitati. Un cinema dunque senza troppi effetti speciali e costituito più che altro dal saper “fare” un mestiere che pian piano è andato scomparendo per via dell’avvento del tubo catodico.

 

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