L’ultimo giorno di Losvizzero

Non esiste cultura senza riti, nonostante differiscano nelle metodologie, nelle pratiche e persino nella definizione. Vi sono riti privatissimi anche nell’arte, nella solitudine di uno studio, nei gesti del creare: l’oscillare di un segno, la titubanza nell’incidere o nello scegliere una cromia. Andrea Bezziccheri, alias Franco Losvizzero, da 11 giorni ha scelto di vivere i suoi rituali privatissimi all’interno della città meticcia di Metropoliz. Il Maam, museo dell’altro e dell’altrove, è divenuta la residenza in comunione dell’artista, dove nell’immersione multietnica del luogo l’arte trova il suo spazio nella transitorietà di un microcosmo vitale che serba nei suoi ambienti la premura di conservare, in un ex fabbrica abbandonata, eterogenee espressioni creative dedite a raccontare una dimensione parallela del sistema arte.

Franco Losvizzero ha scelto di risiedere a Metropoliz con la consapevolezza di immergersi in un mondo altro dove è possibile lasciarsi contaminare da tutto quello che lo circonda. In questi undici giorni di “clausura” artistica, Losvizzero concepisce opere imbevute e contagiate da questa esperienza, la sua visione spirituale è al centro del suo linguaggio, il fattore determinante che lo ha portato anche nei suoi lavori performativi a generare un vocabolario dedito ad instaurare un dialogo con l’inconscio. L’artista progetta la sua residenza in comunione, laddove sono fondamentali gli apporti esterni di chi lo nutre, di chi condivide con lui questa sorta di gestazione creativa. Ospite della stanza intitolata Cattedrale, opera di Cristiano Petrucci, Veronica Montanino e Gianni Asdrubali, Lo svizzero si è messo in relazione con i lavori custoditi a Metropoliz coinvolgendo i protagonisti di Cattedrale nella genesi di un’opera collettiva che farà parte della collezione permanente del Maam curata dall’ideatore del museo Giorgio De Finis.

Abbiamo incontrato Franco Losvizzero per approfondire le ragioni della sua residenza e le suggestioni di un’esperienza così intensa ed unica.

Metropoliz è un luogo dove tante esistenze si incrociano, un ambiente in cui non è semplice approcciarsi, qual è stato il motivo scatenante della tua scelta? Cosa ti ha spinto a risiedere per undici giorni in questo spazio?

Non essendo un museo istituzionale ma un luogo dell’oltre, ho pensato che Metropoliz fosse una sfida da affrontare. All’inizio quando Giorgio De Finis mi ha chiesto di portare un’opera ho pensato fosse un gesto limitativo. Questo è un ambiente dove ho intravisto la possibilità di una mia performance che mi coinvolgesse a 360 gradi. In questo museo abitato la sola esperienza possibile era creare una residenza in comunione. Il concetto di residenza riporta alla mente l’attività di un artista che si sposta dai confini del suo paese natio per generare il proprio lavoro altrove. La comunione è un’idea legata ad un’immagine religiosa e spirituale, un pensiero fondante della mia arte. In questa stanza dove sono rinchiuso per 11 giorni mi sono messo alla mercé di chi vive quotidianamente questo spazio, è la mia sfida personale dove ho cercato di mettermi in discussione, vedere se queste persone mi avessero trattato come la nostra società si comporta con loro. Mi sono chiesto come mi avrebbero accolto e la realtà dei fatti è che ho trovato un amore che mi ha investito, sono tante le persone che giornalmente mi vengono a trovare, che mi cibano, che sono incuriosite dalla mia presenza, come ad esempio i bambini, e che condividono con me la loro cultura. È il mondo che in questi giorni mi sta venendo incontro.

Parlando della matrice creativa di questa esperienza che cosa ti sta lasciando Metropoliz?

Sapevo che sarebbe successo, ma non sapevo a che livello: questo luogo mi ha contaminato. Nei disegni che sto producendo vi è una donna che prega, sulla schiena porta il peso di una città, l’ho intitolata Metropoliz la città che prega ed è il segno esemplificativo di quanto questo luogo stia entrando nel mio lavoro. La reclusione che sto vivendo contiene in sé un senso religioso come fosse una clausura monastica dove ho occasione di riflettere e di mettermi in relazioni con le parti più profonde del mio io. È una clausura blanda perché sono molte le persone che mi sono venute a trovare, che hanno condiviso con me questa esperienza che possiede una matrice sociale importante anche grazie alla condivisione che passa per i social network. Metropoliz sta sollecitando la mia dimensione creativa ed ho scoperto in questo luogo che per la prima volta riesco a dipingere senza stare male, senza attingere al lato più cupo del mio inconscio.

In questi giorni, leggendo il tuo diario virtuale, hai raccontato un aneddoto curioso riguardante la ricerca del colore giallo, cosa sta cambiando nel tuo modo di approcciarti alla tela?

Si è trattato di un momento singolare della mia residenza, ho portato con me le cromie che utilizzo abitualmente nei miei lavori, ad un tratto, però, avevo bisogno del colore giallo per completare un’opera, ma non ne possedevo. Una mattina, passeggiando tra le stanze di Metropoliz, nella grande sala che contiene l’installazione della luna, ho trovato a terra un barattolo con un goccio di colore giallo che ho utilizzato per la stella cometa dell’opera intitolata Viene Natale. Ritrovare quel barattolo è stato come riappropriarsi di un equilibrio interiore. Scegliere di risiedere a Metropoliz è stata una decisione frutto della volontà del mio inconscio che mi ha aiutato a scoprire nuove realtà dove sto raccogliendo cose preziose come la conoscenza delle persone che abitano questo luogo e che mi permettono di sondare dimensioni sconosciute.

La stanza protagonista della tua residenza si intitola Cattedrale come il racconto di Raymond Carver dove si narra la storia di una domanda apparentemente insolita ovvero come descriveresti ad un non vedente cosa è un cattedrale? Nell’arte contemporanea la cecità è rappresentata dalla mancanza di capire concretamente l’essenza di un’opera allora come è possibile narrare ad una persona sensibilmente affetta da cecità cosa sia una cattedrale che in ultima analisi è la metafora che descrive le espressioni artistiche contemporanee?

La dimensione spirituale dell’arte è al centro del mio percorso di ricerca, quando realizzo una scultura meccanica o un carillon mi piace creare quell’aurea di mistero, quel momento magico in cui spero di raggiungere il bambino che è racchiuso in ognuno di noi. Raccontare una cattedrale vuol dire in prima istanza riconoscere la bellezza che è contenuta nel proprio essere ed averne consapevolezza solo quando la vedi specchiarsi altrove. L’arte è esplorare se stessi, come nella purezza del coniglio bianco che cerca di ritrovare le meraviglie del proprio inconscio, lì risiede la capacità di riconoscere cose che ci sono familiari e cose che con il tempo abbiamo fissato come importanti nella nostra crescita spirituale ed interiore, ma anche immaginifica. I miei personaggi metafisici nascono dalla religione, dalla mitologia antica e dalle divinità egizie, rappresentano stratificazioni culturali che ci portiamo dentro e che fanno parte dei nostri retaggi rituali.

Nel contemporaneo è forte il senso di iconoclastia che rende intellegibile a chi non possiede sovrastrutture intellettuali di percepire la vera essenza di un’opera. Secondo la tua esperienza è nell’atto performativo o nel gesto pittorico che riesci a travalicare quell’abisso che molto spesso rende distanti lo spettatore dall’opera d’arte?

Nella produzione dei miei disegni questo processo avviene e mi rendo conto che riesco ad interagire con simboli, segni, rituali che non sapevo appartenessero alla nostra cultura occidentale ma che sono il frutto dell’appropriarmi del mio inconscio. Questo percorso lo sento come fosse una sorta di meditazione dove mi metto in contatto con la parte più profonda del mio io attraverso l’esplicazione rituale della mia arte. Dipingere diviene un rito, le mie performance sono un rito, come dinnanzi la santa messa, io celebro l’espressione del mio inconscio.

La storia dei secoli è frutto anche di ricorsi ciclici in cui l’uomo rivive inevitabilmente declini o grandi fasti, a tuo modo di vedere siamo entrati in un nuovo umanesimo o celebriamo inesorabilmente un’implacabile epoca frutto di manierismi?

Io credo fermamente che stiamo entrando in una nuova era, che non vuole essere per forza la copia dell’avvento new age, sono convinto che si stia formando ora, come mai avvenuto nella storia dell’uomo, l’emergere di una coscienza collettiva. Questo è il sintomo di un cambiamento che si avvertirà in ogni livello sociale e che sarà il passo verso un nuovo orizzonte.

Franco Losvizzero conclude la sua residenza il 16 ottobre attraverso la performance intitolata L’Ultima Cena dove l’artista condivide con il popolo di Metropoliz e con chi vuole condividere questa esperienza l’atto conclusivo della sua reclusione artistica nell’ex fabbrica occupata.

16 ottobre, Maam Museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz, via Prenestina 913, Roma; info: www.spacemetropoliz.com. Per seguire il diario virtuale della residenza di Franco Losvizzero clicca qui.