L’ossessione di Claude Monet

Claude Monet aveva un’ossessione. In parte la sua idea era condivisa dai suoi amici impressionisti, in parte no. O meglio, sì ma fino a un certo punto, cioè esattamente in quel punto dove l’idea diventava ossessione, lì dove gli altri mollavano, insomma, lui rimaneva. L’ossessione che ha guidato la vita del pittore francese è stata la luce. Elemento fondamentale anche per una delle invenzioni più influenti della storia che proprio in quel periodo (siamo verso la fine dell’Ottocento) stava prendendo forma: la fotografia. Stabilire quanto uno abbia influenzato l’altro è forse uno degli argomenti più affascinanti della storia dell’arte anche se impossibile da definire. In ogni caso il rapporto che hanno intrattenuto l’impressionismo con la nascente tecnica (all’epoca veramente poco) artistica è ben simboleggiato dalla prima mostra del gruppo tenutasi nello studio fotografico del più grande ritrattista dell’epoca, Nadar.

Claude Monet aveva una fede, il suo credo era la luce. Sapeva, da bravo impressionista, che questa era la divinità da pregare di ogni pittore prima di andare a dormire. Lui e i suoi compagni parigini costruivano opere che dai contemporanei vennero bollate come schizzi preparatori, impressioni nel senso più dispregiativo del termine, perché l’oggetto dei loro studi, prima di disegnare una figura nella luce, era rappresentare la luce nella figura. Chiaro che per necessità pratica gli impressionisti non potevano impiegare ore per tirare su un’opera, né tanto meno potevano continuarla con calma nei loro atelier, perché il tema dei loro lavori era in continuo mutare, perché la luce non è mai uguale a se stessa.

Claude Monet era un estremista. Il pittore è stato l’unico dei suo colleghi a portare fino a un punto di non ritorno la sua ossessione, a condurre le ricerche sulla luce fino a raggiungere un punto oltre il quale non si poteva andare oltre. Monet prima degli altri (e in anticipo di qualche anno sulle ricerche successive) ha capito che la luce non è concreta, che la luce è un elemento astratto e che, finalmente, chi decide di farla protagonista dei suoi quadri deve dipingere come mai si era fatto fino a quel punto, Monet, insomma arriva prima di Kandinskij alla pittura astratta.

Il cammino è stato tutt’altro che lineare e la mostra Monet, au coeur de la vie, curata da Philippe Cros e esposta nelle scuderie del castello di Pavia, lo dimostra particolarmente bene. Grazie a un percorso espositivo diviso da sei personaggi che raccontano, in video, altrettante storie, viene ripercorsa la carriera del pittore dagli inizi fino allo splendido giardino giapponese e le sue ninfee. Gli incontri introducono i vari periodi dell’artista tutti uniti da quell’unica sua ossessione. A riprova di questo chiodo fisso è esposta la cattedrale di Rouen, o meglio una delle tante versione che Monet ha fatto di uno stesso identico soggetto con la stessa identica inquadratura dove l’unica cosa che varia è proprio la luce. La cattedrale viene infatti dipinta in vari momenti della giornata e ogni lavoro nonostante presenti la stessa struttura rivela particolari diversi. Da qui ad anticipare Kandinskij il passo è breve, bastava solo un ninfeo e qualche stampa giapponese.

Fino al 15 dicembre, castello di Pavia, piazza di castello; info: www.scuderiedipavia.com