La Genesi di Salgado

Oltre duecento fotografie eccezionali ad opera di Sebastiao Salgado sono attaccate ai muri dell’Ara pacis per la mostra Genesi curata da Leila Wanick Salgado. In quelle eccezionali è riassunto tutto ciò che possiamo scrivere o dire su quest’ultimo lavoro del fotografo brasiliano. Composizioni perfette e stampe tirate da far invidia a Wilhelm von Gloeden. Fotografie bicromatiche impeccabili, senza macchia, che passano tutti i gradi del b/n, tanti quanti ne conosce l’uomo, dal bianco accecante al nero d’abisso. Sono fotografie fatte senza un grammo di polvere nell’obiettivo della sua 35 millimetri ed evidentemente sviluppate in un ambiente asettico. Sono lavori perfetti, veramente, come un disegno di Raffaello, come le copertine patinate di moda degli anni Ottanta.

L’idea di fondo è antica come l’espressione umana, nasce da una necessità di mettere ordine nel mondo, per catalogarlo, per studiarlo e infine capirlo. Un’idea bandiera dell’illuminismo, questa, che spiega perché, ai primordi, la fotografia era una tecnica indicata per le scienze e non per le belle arti. Un’idea, però, che contrasta con gli intenti dello stesso Salgado. Armato della sua sola macchinetta, il fotografo intraprende un viaggio lungo otto anni che si produce nei 200 scatti in mostra, ovvero in Genesi, suo ultimo lavoro.

Dice il reporter: «Sono andato alla ricerca di quei posti dove il rapporto fra uomo e natura non è ancora rovinato come il nostro, in quelle parti dove il pianeta si presenta ancora nel suo stato primordiale». Eppure tutta questa idea di selvaggio non compare in un solo scatto di Salgado. I soggetti dei suoi lavori che siano vegetali, minerali, animali o umani (è lui il primo a dire che non c’è differenza) sembravano proprio aspettare qualcuno che li fotografasse, detto altrimenti, sembrano in posa. Il fotografo è lì, dietro le dune del Sahara o fra le valli innevate dell’Antartide ad aspettare che il mondo si ordini, anche solo per un attimo, per poi scattare.

Tutto questo per dire che Salgado si dà da fare per prendere il bello della natura selvaggia e non la natura selvaggia. A conferma basta guardare i ritratti che fa degli indigeni, dove sono tutti perfetti e agghindati in attesa dello scatto o vedere cosa è diventato l’albatros ridotto a uno sguardo languido messo di profilo. Genesi, in questo senso, non si distacca di una virgola dalle fotografie del National geographic. «Lo scopo doveva essere – dice ancora Salgado – far vedere un modo nuovo di vivere il pianeta terra». L’intento documentaristico (anche se filtrato dal bello) sembra averla vinta su qualsiasi altra ricerca e l’unica pretesa di artisticità rimane nell’utilizzo esclusivo del bianco e nero, del resto così accademico da non aggiungere niente al mondo della fotografia.

Genesi, così, si pone in una via di mezzo, lontana dal reporter vero e proprio perché impostato su una forte selezione del reale (per dire: non c’è un solo animale che muore o un solo cristiano che dorme) e distante dall’arte nel riproporre idee fotografiche usate (vedi la teoria di Bresson sul momento decisivo) e tecniche, le quali, seppur usate alla perfezione, sono lontane da un’idea di ricerca. Insomma, al Salgado di Genesi preferiamo di gran lunga quello del fotoreporter vero e proprio impegnato in lavori come La mano dell’uomo o In cammino, perché alle balene e ai pinguini ci pensa National geographic.

Fino al 15 settembre; museo dell’Ara pacis, lungotevere in Augusta, Roma; info: www.museocomuneroma.it