Festival del cinema di Venezia

A Venezia vince chi osa. L’ha dimostrato al meglio il cineasta coreano Kim Ki-duk ritirando il Leone d’oro per il suo Pietà, cupa pellicola di difficile definizione che intreccia al suo interno fili insanguinati di narrazione, tra criminalità e depravazione. Senza risparmiare nulla allo spettatore, scena di incesto compresa. Protagonista un uomo senza nulla da perdere, impegnato in un recupero crediti che passa attraverso mutilazioni e omicidi, che ad un tratto scopre di avere una madre. E che quella madre, malgrado l’abbandono, l’assenza e le violenze, è decisa a stargli accanto. Un racconto crudo e serrato di una vendetta servita fredda, che mostra molto della crisi morale e umana, prima che economica, che attraversa attualmente il globo terrestre. Anche il premio speciale della giuria è andato a un famigerato film-scandalo: Paradise: Faith, secondo capitolo della trilogia dell’austriaco Ulrich Seidl, applaudito in barba a ogni bigottismo, nonostante sequenze di masturbazione con crocifisso e orge incensurate. Ma è The Master il trionfatore assoluto dell’edizione: aggiudicandosi Leone d’argento e Coppa Volpi ex aequo come miglior interpretazione maschile per l’ineguagliabile coppia di protagonisti ( in effetti Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman firmano performance memorabili) il film di Paul Thomas Anderson ha convinto la giuria di Venezia 69 nella rappresentazione folle e schizofrenica di un’umanità in bilico (Phoenix, che arriva a spaccare un gabinetto in carcere) tratta in salvo da uno pseudo-santone (Hoffman, figura ispirata al fondatore di Scientology).

Il risultato è un rapporto simbiotico e morboso di mutuo scambio, in un reciproco contagio di patologie mentali. Alla narrazione ellittica, e alle conseguenti difficoltà nel seguire il flusso della storia, suppliscono immagini di grande impatto visivo e una regia impeccabile, che ricorda da vicino il precedente (e più riuscito) lavoro di Anderson, Il petroliere. Tra gli italiani, solo Daniele Ciprì con la fiaba nera e grottesca È stato il figlio ottiene riconoscimenti, forse proprio per l’originalità di racconto e messa in scena, benché di fatto fosse Bella Addormentata di Marco Bellocchio (che non ha risparmiato il suo punto di vista: «Sono sconfitto ma non provinciale») l’unico italiano davvero meritevole del concorso internazionale. Resta il fatto che i panni sporchi si lavano in famiglia, e nel caso specifico nella giuria: non a caso Matteo Garrone, unico italiano tra i giurati, viene malamente zittito dal presidente Michael Mann. Forse anche in giuria vince solo chi osa.

 

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