“Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio!”. Le parole sono di Pessoa, o forse di Tabucchi che le ha scelte tra le migliori del suo amato, ma sono anche del fotografo che guarda, e dunque sente, e pensa su ciò che sente, provando un disagio da cui vuole liberarsi, di lì a poco ricadendovi, più spossato di prima. Questa, secondo Giovanni Zaffagnini, è la condanna del guardare. Qualunque sia la cosa che si guarda, anche – e forse di più – se filtrata attraverso i vetri sporchi delle fermate degli autobus e delle cabine telefoniche (quando ci si andava per telefonare). Stiamo lì, assorti, e tra noi e il mondo c’è un fragile schermo, sul quale però facciamo un grande affidamento: lo schermo ci illude di poter difenderci da ciò che vediamo, dagli effetti del sentire, del sentimento. Un sentimento di sconforto per la bruttezza, l’insignificanza di ciò che ci circonda, che sono poi – la bruttezza, l’insignificanza – una specie di condanna che ci colpisce: di non poter trovare salvezza, speranza, appigli per ripartire.