Donne che odiano il velo

Molti occidentali credono che in Afghanistan e nei paesi musulmani, per le donne che vivono le proprie giornate avvolte dai veli che ne nascondono il volto o l’intera figura, si debba parlare di imposizione. Tutto questo è vero. Una costrizione che lede l’identità femminile distruggendo il libero arbitrio di molte persone che subiscono, fin dalla nascita, la volontà altrui. Ma è pur vero che ce ne sono altrettante, di donne con gli stessi veli, che decidono soprattutto per fede di indossare abiti che ne nascondono l’intera persona. È bene quindi da una parte sposare le battaglie mondiali di organizzazioni non governative e libere associazioni di volontariato che ogni giorno combattono affinché i diritti umani, femminili soprattutto, vengano rispettati. Diritti molto più importanti della disquisizione su un velo di tessuto.

A cercare di far luce sulla questione ci pensa la Casa internazionale delle donne di Roma che presenta sabato 5 marzo alle 19,30 il documentario “Blue ghost” ispirato ai diritti delle donne in Afghanistan. Diretta da Franco Fracassi, la docu-inchiesta realizzata da quattro giornaliste "free lance", Ludovica Amici, Katia Campacci, Giorgia Pietropaoli e Francesca Spatola, mostra come la promessa di Laura Bush di liberare le donne afghane dalla cappa del burqa non sia stata mantenuta. Ma il pregio del documentario, al di là della singola dimostrazione sulla riluttanza a sconfiggere una piaga sociale come la violenza sulle donne, ha il pregio di far luce su molti altri problemi che affliggono l’universo femminile in Medio Oriente. Una parità tra i sessi assente e una gerarchia piramidale che vede la donna occupare i livelli più bassi di una società ancora fortemente patriarcale e molto lontana dall’idea occidentale di società civile.

A completare la giornata anche l’esposizione fotografica di Valeria Murgia, La bambina che non esisteva. Un portfolio figlio dell’omonimo romanzo di Siba Shakib ambientato in Afghanistan che prende vita attraverso gli scatti di una fotografa “errante” come la Murgia. Una storia comune, una storia tra le tante, tra le molte che si verificano ogni giorno in quella terra di nessuno. Un racconto fatto attraverso primissimi piani, rigorosamente in bianco e nero, che descrivono la costrizione di una bambina afghana costretta a essere maschio. Un viaggio però a lieto fine che, se da una parte denuncia una condizione ai limiti dell’accettabile, dall’altra infonde speranza perché la narrazione sia del romanzo che del lavoro fotografico partendo dalla violenza e dalla rabbia arriva alla luce e alla riconquista di un’identità fino a quel momento piegata e governata da altri. Sebbene le fotografie di Valeria Murgia possano sembrare dei magnifici ritratti decontestualizzati e in parte costruiti, l’uso del bianco e nero e del primo piano mette in evidenza l’evoluzione dei sentimenti e delle emozioni vissute dalla protagonista.

Insomma, sia il documentario che la mostra sposano ancora una volta un tema e una problematica ormai discussa e affrontata nei modi più vari. C’è da sperare che questa volta ci sia davvero qualcosa in più su cui soffermare l’attenzione.

Casa internazionale delle donne
palazzo del Buon pastore, via della Lungara 19, Roma
Info: www.casainternazionaledelledonne.org