Qualche dubbio sullo spazio, bellissima struttura architettonica moderna ad opera di Luigi Moretti, forse un po’ troppo dispersiva per un evento, la mostra "Acthung! Achtung!", che prega raccoglimento affinché la custodia della memoria perduri e sopravviva alle barbarie del nostro tempo. E perché il ricordo non si smarrisca in un ambiente eccessivamente modulato in blocchi e le opere in uno sciame di incontri.
Qualche dubbio induce pure l’allestimento, poco snodabile e corale a memoria di genocidi d’intere collettività. Carenza di dialogo fra le opere: lavori di artisti un poco troppo distanti per tecnica, sentire e approccio all’arte sono stati affiancati. Ma l’apprezzamento va verso ogni singolo lavoro e verso le scelte artistiche delle due curatrici, Micol Di Veroli e Barbara Collevecchio. La forza della mostra risiede infatti proprio nell’eterogeneità degli aspetti ricreati, rivissuti, allusi, fatti emergere della Shoah e dell’Olocausto. Poiché ogni artista interpellato ha elaborato, secondo il proprio linguaggio espressivo e immagine intima, la memoria di quella piaga. Così da presentare molteplici aspetti di quelle tragicità: chi una condizione d’animo, chi l’atrocità della gestione politica della morte, chi un simbolo, chi un rappresentante, chi un luogo.
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Per commemorare tramite l’universalità dell’arte e far riflettere con la rivificazione delle emozioni – dolore, odio, rabbia, prigionia, alienazione: dramma. La volontà di ricordare e far calare nello strazio di quei sentimenti, tramite la potenza di immagini evocative. Perciò l’illusione di essere trasportati in un Memoriale è data dalla videoproiezione in bianco e nero di Andrea Aquilanti e dalle ombre che i visitatori ne generano; la videoregistrazione di "Roxy in the box", custodita in una curiosa scatola e fruibile attraverso una serratura – chiave d’accesso al mondo per molte vittime – si fa metafora del sentimento di prigionia. La fotografia di Matteo Basilè – un giovane volto trasfigurato dal patimento – ricrea la disumanità cui tali individui sono stati consegnati; mentre i teschi disegnati a penna da Andrei Molodkin si fanno effigie di una morte fisica – come inevitabile conseguenza di una decadenza civile, sociale e politica. La stella di David immersa in una materica tela nera è il modo in cui Franko B discorre di un’intera stirpe consegnata al suo oscuro destino, da un inevitabile Hitler ridicolizzato e trasfigurato in un duchapiano Chaplin nel video di Boaz Arad.
E se l’installazione multimediale di Gaia Scaramella mette a disposizione schede di memoria offrendoci la possibilità di scegliere e visionare immagini d’archivio, Emanuele Napolitano & Francesco Petricca cancellano immagini di aguzzini, palesandone al contrario gli atti funesti tramite documenti dell’epoca. Come al ritmo dei temuti passi nemici, lungo i binari di scarpe militari di Davide Orlandi Dormino, proseguiamo lungo l’esposizione, inglobati nella musica accorata di un violinista che, pur di non fare perire il suo strumento, sacrifica il suo crine e sembra musicare parole isolate in vecchi testi, sigillati in simboli e nodi (Fernanda Veron); mentre su tutto si leva il lavoro delicatissimo e invisibile ai molti di Silvia Giambrone: un filo spinato presente pur nell’assenza – come cicatrice in una scia di cenere, la conferma dell’ineluttabilità nel tempo di ciò che è stato.
Alla base di tutto ci sono sei milioni di ebrei e omosessuali, disabili, pentecostali, comunisti, Rom, testimoni di Geova, massoni, immigranti, dissidenti politici, ognuno col proprio colore e simbolo identificativo, per un totale di circa 17 milioni di defunti, cui la collettiva romana intende rendere omaggio.
Fino al 27 Gennaio
Ex Gil, largo Ascianghi 5, Roma