La fotografia intesa come «estensione e visualizzazione dei pensieri», precisando che «essa non è uno strumento per documentare il mondo. Piuttosto, utilizzare gli elementi del mondo per interpretare e rappresentare un universo personale». Parole di Nicola Vinci, che dal 5 giugno al 4 settembre è al centro della personale L’altro che mi guarda alla galleria Arte Boccanera contemporanea di Trento.
Un ciclo di dodici scatti nati tre anni fa nel corso di un viaggio in Sudafrica, dove l’artista è venuto a contatto con la realtà giovanile delle periferie caratterizzate da miseria, disoccupazione, microcriminalità. «Nell’occasione Vinci – spiega il curatore della mostra, Luigi Meneghelli – entra in una struttura d’accoglienza con l’intento di offrire ai ragazzi l’opportunità di essere ritratti, quasi un segno simbolico di riscatto e dignità». Quale location l’artista sceglie una semplice stanza d’ingresso, un luogo spoglio che rispecchia in qualche modo i soggetti da ritrarre. «E ai ragazzi che guardano in macchina Vinci non chiede di assumere pose particolari, ma solo di riflettere su se stessi e sulle proprie emozioni», circoscrive il curatore.
L’intento dunque è quello di cogliere i giovani in uno stato di abbandono, come fossero nudi, inermi, vulnerabili («È proprio l’idea della perdita, del distacco che i loro volti mostrano, ad avermi attirato», ammette l’artista). In questo modo Vinci vuole che l’immagine diventi un mezzo, un simbolo capace di tradurre il senso del disagio esistenziale. Pone ognuno dei ragazzi contro un muro-fondale ricoperto da una stuoia, proprio come potrebbe verificarsi all’interno di un commissariato di polizia. «Solo che qui non c’è nessuna intenzione di rivelare impronte, né di schedare o di archiviare – precisa Meneghelli – poiché a Vinci interessa esattamente l’opposto, ovvero cogliere l’archetipo del volto che sfugge a qualsiasi catalogazione dell’identità». Angeli “sporchi”, vittime in attesa di sacrificio, prigionieri privi di ogni possibilità di fuga: i giovani africani sono “messi al muro” senza per questo essere esposti allo sguardo indagatore di colui che osserva. «L’obiettivo è quello di fare dei loro corpi offesi dei veri e propri testi viventi», spiega il curatore. Non solo.
Nel lavoro di post produzione l’artista ha ricoperto il muro spoglio di motivi ornamentali, «facendo sì che i suoi “protagonisti” vengano spinti contro ogni riluttanza, estratti dal buio, illuminati e quasi simbolicamente sublimati», conclude Meneghelli.
Info: www.arteboccanera.com