Pablo Echaurren: io, Papageno tra sole e morte

Ha attraversato le proteste del ‘77 e gli anni ‘80, l’intellighentsia di sinistra e di destra. Ha fatto di tutto: dai fumetti ai collage, dalle tarsie di stoffa alle ceramiche, dai microquadretti degli anni Settanta alle grandi tele attuali. E scrive. Con una prosa stralunata, avvincente, da epigono dei maestri del futurismo (una delle sue grandi passioni, come il gruppo dei Ramones e i bassi, che colleziona avidamente). Sempre con la voglia di non fermarsi, scoprire un mondo ogni giorno diverso. Pablo Miguel Papageno Echaurren è tra le figure più eclettiche dell’arte contemporanea, un funambolo capace di misurarsi con ogni cifra, di muoversi su ogni terreno marcandolo del proprio linguaggio, costantemente fuori dal coro. Un percorso apparentemente obbligato per l’artista – ma lui rifugge dalle categorizzazioni, compresa questa – figlio del pittore cileno Sebastian Matta e dell’attrice Angela Faranda, ma non è così. All’arte Paino (come lo chiamano gli amici) c’è arrivato seguendo un personale percorso, fuori dal tracciato di chi l’ha battezzato Pablo (in omaggio a Neruda) Papageno (l’uccellatore del Flauto magico di Mozart). Racconta Echaurren (nome mutuato dalla nonna basca) nel suo studio romano: «Mozart era una passione di mio padre, io sono nato nel ‘51, lui se n’è andato nel ‘54 e mia madre si è sbrigata un figlio in solitudine, allora non era usuale. La mia vita l’ho passata con lei fino a 19 anni, quando sono andato via da casa. Sono sempre stato abbastanza indipendente».
E questo padre assente?
«Beh, lui giocando con Duchamp diceva che era un padre trasparente, si nobilitava un po’. Diciamo che era abbastanza assente, da bambino lo vedevo le poche volte che passava per Roma. Alloggiava al Plaza o all’Hassler, pranzavamo in un ristorante pomposo, tipo Ranieri, faceva il suo riposino pomeridiano, poi andavamo al cinema o a una mostra e tornavo a casa. Da lui ho avuto un po’ di dirozzamento, però non mi ha mai parlato molto d’arte o del suo lavoro. Nei miei sogni da ragazzino non c’era il pittore, l’arte l’ho scoperta sull’onda di un’altra conoscenza, Gianfranco Baruchello: un po’ il mio padre putativo. Anche il mio amore per Duchamp, evidente nei miei quadratini, nasce da lui. Malgrado mio padre fosse uno dei pittori più amati da Duchamp, da lui non è venuto nulla che me lo facesse amare, immettere nel mio lavoro. Baruchello l’ho conosciuto a una festicciola a casa sua, lì ho scoperto il primo libro futurista e i suoi quadri fatti di figurine minute, fumettistiche. Ci siamo incuriositi a vicenda, all’inizio l’ho copiato proprio. Nei miei quadratini ci sono sassi che si muovono, smottamenti: lì pensavo al Grande vetro di Duchamp, a un quadro che raccontasse un mutamento. Erano visti come paesaggi, figurazioni, ma erano antipittura, tavole di concentrazione, un po’ come le immaginette sacre. Queste prime prove, più che immature, Baruchello le ha portate dal suo gallerista, Arturo Schwarz, e quello ha comprato tutto, a due lire. Al liceo andavo male in tutte le materie e mi sono detto: due soldi così li guadagno, la finisco qui. Infatti feci pochi anni all’università. Insomma è stato un incontro iniziatico, fondamentale, senza di lui non avrei fatto questo lavoro. Forse sarebbe stato un sollievo».
Con Schwarz c’è un rapporto continuo anche se altalenante nel tempo. Di te dice: per Echaurren il sole è nuovo ogni giorno. Ti rinnovi sempre.
«Sì, è vero, non mi annoio mai, perché quando arriva la noia mi sposto altrove. Poi il sorgere del sole, la mattina, sono fondamentali per me. Il tramonto è terribile, non amo la notte, registro un incupimento e una negatività verso lo sviluppo della giornata, anche se questo lui non lo sa».
Agli anni dei quadratini risale anche la famosa copertina di Porci con le ali.
«La cosa nasce con l’idea di mettere un quadro, non un’illustrazione. A me non pareva che tra questa e la pittura ci fosse un distacco, tra l’altro ciò creò una piccola frattura con il gallerista con cui lavoravo, Massimo Valsecchi. Era il ‘77, volevo smetterla di fare l’artista, sciogliermi nel Movimento, mi misi a fare la cucina dei giornali, i collage, quindi questa confusione tra l’opera e la sua moltiplicazione si incrementò. Anche nel mio primo fumetto, Sto Picasso, dove Sto sta per lo pseudonimo di Sergio Tofano, l’autore del Signor Bonaventura, c’era l’idea che non ci fosse gran differenza tra un quadro e un ottimo fumetto d’avanguardia. Per me una stampa di Miró che vedevo in casa e una facciona di Topolino non erano così distanti».
Pittura, fumetto, collage, stoffa, ceramica: c’è un tuo continuo “altrovizzarsi”, per dirla come Tommaso Ottonieri, o come dice tua moglie Claudia Salaris “un’arte virale” che nulla esclude, si estende dall’alto al basso. 
«Premesso che la parola artista mi dà un po’ fastidio, perché la professionalizzazione mi piace poco, se uno sceglie di esprimersi con segni, parole, eccetera, è del tutto indifferente lo strumento che usa, anzi ne userà diversi anche per confrontarsi. Penso che l’arte più che un genere sia un filtro, un setaccio come per il cercatore d’oro che nell’acqua melmosa trova ogni tanto qualche pagliuzza d’oro. Ma mi sono accorto che questo spostarsi di campo crea confusione in chi ha bisogno di un parametro fisso per riconoscere una cosa valida».
In questo tuo percorso qual è l’ultimo approdo?

«Dal piccolo sono arrivato al grande, non riesco a fare più nulla di piccolo. Dò il meglio in questi quadri, tanto che ho cessato ogni lavoro illustrativo, non faccio più copertine e manifesti. Relego ogni commento al quadro, non ho più voglia di darmi al segno grafico».
Metti la parola scritta negli elementi del linguaggio pittorico. È questa la tua nuova frontiera?
«Scrivere è un divertimento, un hobby, non mi metto in lizza, non voglio passare per uno scrittore, candidarmi al premio Strega. Ho fatto una serie di romanzi per trasferire nel racconto comico la polemica contro il mondo dell’arte che è altra cosa dall’arte. Il rischio grave è quello di continuare a vedere questa come un conglomerato di successo e denaro. Ero a cena da un amico, con una giovane gallerista e una critica che continuavano a commentare le vendite di questo e di quello. A un certo punto ho chiesto: di che parlate? Ma di arte. No, mi pare che si tratti di soldi. Questo la dice lunga, è come uno che suona non perché gli piace ma per entrare nella hit parade».
Se gli approdi sono diversi, il punto di partenza per un artista mi pare lo stesso, lo dici in uno dei tuoi romanzi: l’affermazione del sé, l’ego.
«Sostanzialmente è il bisogno di esprimersi, di dire la propria non tanto su se stessi quanto sul fluire delle cose attorno a sé. Non starsene zitti».
Tornando al discorso del Movimento, sei passato da Lotta continua all’amicizia con intellettuali di destra come Giano Accame, scomparso da poco; hai dato vita a movimenti come il Gattabuismo, con Valerio Fioravanti; sei affascinato dal futurismo, di cui hai la maggior collezione al mondo. Insomma, anche qui ti “altrovizzi”.
«Le dottrine mi danno angoscia e fastidio, cerco di spezzare il collare. Nei movimenti ci sono stato da cane sciolto, sgradito alla parte più ortodossa e leaderistica. Proprio l’essere stato in quella realtà omologante mi ha portato a fare cose considerate tabù: leggere Celine, Pound, Marinetti, i futuristi visti allora come cascami del fascismo. La mia voglia di uscire dagli schemi mi ha portato a conoscere altri mondi, non ritengo che buoni e cattivi si possano separare con l’accetta. Da un desiderio di positività può nascere la peggiore negatività, come da questa momenti di positività. La vita è un casino, uno strano insieme di vasi comunicanti, bisogna smetterla di cercare di mettere ordine ma cogliere qua e là, chi rimane fermo rischia di non capire nulla del mondo che sta vivendo. Io mi lascio andare».
Fra le tue passioni da collezionista ci sono i bassi esposti all’Auditorium. Eri un entomologo.
«Sono un serial filler, amo riempire le caselle per poi uscirne. Non ho mai giocato a pallone in un gruppo, andavo in un campo a vedere le cosettine che camminavano, leggevo manuali di scienze naturali. Forse è un modo di gestire la follia, di organizzare il caos, dare un ordine alle cose. Un mio vizio mentale. Per quanto riguarda gli strumenti musicali, a parte il fatto che la mia prima passione da ragazzo è stata quella, sono oggetti di una grande qualità artistica, superiore a molte opere in circolazione. Anche i miei quadri sono collezioni, perché si tratta di una variazione sul tema».
C’è qualche relazione tra arte, genio e follia?
«In linea di massima l’arte è una forma di sedazione, di esorcizzazione delle ansie, delle nevrosi che si hanno. Sostanzialmente l’uomo è un essere nato per fare, produrre con le proprie mani, seguire il corso delle stagioni, questa è la media del destino dell’uomo. Uno che non fa niente o non sa fare niente come l’artista, per definizione uno sfaticato sociale, per non impazzire deve darsi uno statuto, qualcosa da fare».
Nello studio hai una bara, molte tue opere sono zeppe di teschi, raffigurazioni Inca della morte.
«La morte per me è sempre viva. Tutti dicono che il mio lavoro sia ludico, invece è lucido nella sua visione negativa, sono un pessimista. Anche da ragazzino andavo alla cappella dei cappuccini, m’inorridiva e affascinava tantissimo. Il teschio, la sensazione di essere mortale è costante. Questo mi dà un’ansia terribile, la spinta ad andare avanti».
Alla fine, dove ti collocherai in questo spostarti?
«Nella tomba. Mi dedicherò ai miei quadri, arrotolati per la mia mostra postuma. Anche a mettere ordine, ho un sacco di roba sparpagliata. Poi molto dipenderà dalle occasioni. Che proponi?».