RE

RE ha la voce squillante e un distinto accento siciliano. RE è prima di tutto uno pseudonimo che nasconde Emanuela Ravidà. Ha solo 31 anni ma ha già alle spalle diverse mostre e una produzione che l’ha fatta conoscere a livello nazionale portandola lontano da Milazzo, sua città natale. Proprio a Roma negli spazi di Fondamenta inaugura il 14 settembre la sua prima personale nella capitale Di chi sono gli occhi che guardano? curata da Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci.

Come nasce RE? Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata la tua vita?
«Di solito si parte sempre da una data ma penso che il percorso artistico vada anche in maniera inconsapevole. Il concetto principale è che quando una persona si addentra nel mondo dell’arte, l’arte stessa è racchiusa in un cerchio che è troppo piccolo per quello che rappresenta. Per me è come se questa cosa ci fosse sempre stata. Come diceva Joseph Beuys ”tutti siamo artisti”: l’elaborazione è molto importante ed è complicata, però il sentirsi l’arte dentro è qualcosa di innato. A 18 anni mi sono trasferita a Reggio Calabria per frequentare l’accademia di belle arti. Tornata a casa, a 26 anni, il punto di vista era cambiato, come le esigenze. Ero circondata da un mondo che non mi interessava. Ho deciso di rifugiarmi in uno scantinato e passavo giornate intere lì, senza la necessità di uscire ma con il bisogno di svuotare tutto quello che fino a quel momento non ero riuscita a elaborare. Ho realizzato una mostra, la mia prima personale, a Milazzo e sono rimasta sbalordita perché in un paio di mesi avevo dato vita, senza sapere come, a innumerevoli opere, tuttora per me molto importanti. Mi sono detta che forse per me quello è stato il Big Bang».

A chi si rivolgono le tue opere? Quale pubblico senti più vicino?
«Parte della mia ricerca artistica è  il tentativo di non chiudere in un cerchio le persone che riescono a comprendere le mie opere. Mi piacerebbe che, e capita a volte, le persone che le osservano non siano avvezze al panorama dell’arte. Mi capita che rimangano quasi ipnotizzate dal fatto che sentono parte di se stesse lì dentro. Perché non uso soggetti delineati, non è un’arte figurativa, è qualcosa di appannato, dipende dallo sguardo che vi si trova davanti e che dà un senso sempre diverso. È una cosa che mi sorprende».

I titoli, invece, sono molto reali rispetto all’astrattismo e alla visionarietà delle opere stesse: come nascono?
«I percorsi sono diversi. La mia fase di progettazione non si ferma allo schizzo iniziale, alle varie ipotesi di realizzazione ma è un lavoro mentale a prescindere da quello che mi immagino diventi. Anche la sua esecuzione è mentale. Sembra semplice ma non lo è, perché dalla mente alla mano c’è un grande filtro che non ti farà mai realizzare l’opera come l’hai pensata. Per i titoli, a volte mi riferisco ai libri che leggo, alla musica, ai film. Sono atmosfere che si realizzano attraverso la mia interpretazione. Vado al di là di testo e musica, cerco il risultato finale in quello che ascolto, quello che vedo, che è più di una semplice canzone o di un film».