Parasite 2.0 al Maxxi

Giovani, sovversivi, costantemente attenti al dibattito politico ma anche artefici di un linguaggio espressivo che spazia tra architettura, arte e design. Loro sono i Parasite 2.0, collettivo fondato e composto da Stefano Colombo, Eugenio Cosentino e Luca Marullo. Vivono in pianta stabile a Milano ma attualmente sono a Roma alle prese con la realizzazione del progetto che li ha visti trionfare allo Yap Maxxi di quest’anno. Li abbiamo incontrati per approfondire la loro ricerca.

Cominciamo dal principio. Quando e perché avete deciso di fondare il collettivo Parasite 2.0?
«Abbiamo fondato Parasite 2.0 nel 2010 ed eravamo tre studenti al secondo anno della Facoltà di Architettura al Politecnico di Milano Bovisa. In comune avevamo l’esigenza di trovare un’alternativa, un vero e proprio sfogo a un accademismo forte. Da qui l’idea di fondare una realtà in cui potevamo esprimere liberamente le nostre idee e porci in maniera profondamente critica nei confronti dei messaggi, a nostro avviso fortemente anacronistici, che tentavano di trasmetterci nelle aule universitarie. Sono nate così le nostre prime istallazioni, progetti dal carattere provocatorio realizzati in giro per Milano; da allora sono passati vari anni e il nostro lavoro si è molto evoluto ma alla base di quello che facciamo c’è sempre una volontà fortissima di suscitare delle domande nella testa di chi guarda».

 Tre architetti che fanno arte, come vivete questa condizione un po’ anticonvenzionale nel mondo dell’arte contemporanea?
«Troviamo difficile darci delle etichette. Diciamo anche che non ci piace. I linguaggi usati dall’arte sono solo uno degli svariati medium che utilizziamo per portare avanti la nostra ricerca; i modelli a cui guardiamo in questo senso sono sia pratiche storiche come i radicAli italiani, e altri come loro, che già negli anni Sessanta mescolavano le pratiche, sfociando anche nell’attivismo, creandosi uno stile ipersonalissimo che metteva profondamente in crisi l’architettura e qualsiasi pratica dell’uomo che, a loro avviso, necessitava di un radicale mutamento. Oggi, come allora, crediamo di trovarci in un momento storico in cui l’architetto debba inevitabilmente interrogarsi sull’importanza sociale della sua professione, in quanto creatore, in primis di habitat, ma in generale di ogni singolo spazio che quotidianamente viviamo. L’architettura, come qualsiasi prodotto dell’azione dell’uomo, oggi pervade la totalità delle nostre vite».

Siete i vincitori dello Yap, un contest di grande interesse per dei giovani architetti. Quali sono le principali caratteristiche del vostro progetto?
«Il progetto si chiama Maxxi Temporary School: The museum is a school. A school is a Battleground; fin da subito più degli aspetti prettamente tecnici e formali, ci siamo preoccupati di proporre una programmazione di attività culturali e didattiche da svolgere in questo spazio, l’idea era proprio quella di dare importanza alla sua finalità ultima piuttosto che al padiglione in senso stretto. Per questo motivo abbiamo concepito la piazza del museo come una vera e propria scuola temporanea, una grande scenografia completamente invasa da una finta natura, artificiale. Abbiamo anche realizzato un’app che permetterà di trasformare, grazie alla tecnica del green screen, lo sfondo dei selfie che i visitatori faranno tra le strutture del nostro padiglione, dandogli l’illusione di trovarsi in un qualsiasi altro posto. C’è chiaramente una componente ludica, volta all’intrattenimento, ma che allo stesso tempo permette di meditare su tematiche importanti che riguardano il nostro pianeta. Abbiamo avuto delle difficoltà a preservare le intenzioni originali del progetto. Alcuni passaggi nel confronto con la gestione del museo si sono persi. Mentre un programma di dibattiti e attività era il centro della proposta, con il padiglione in secondo piano, adesso, purtroppo, questo rapporto è stato invertito».

Come quelle che affrontate nel vostro progetto in evoluzione, The domestic promised land? Parlate della stessa modalità di strutturare un progetto basato sul dibattito?
«Esattamente. Non tutti sanno che attualmente viviamo in un’epoca geologica chiamata Antropocene in cui l’uomo e le sue attività sono la causa di importanti modifiche territoriali e climatiche della terra. A nostro avviso, riconoscere la condizione in cui versiamo è l’unica opportunità per rivedere i processi di antropizzazione. Migliaia di anni fa, quando il mondo delle origini era inospitale, con basse temperature e assenza di materiali naturali come il legno, l’uomo ha pensato di modulare il suo rifugio utilizzando ciò che gli era più semplice reperire; recentemente in Ucraina ed Olanda hanno riscoperto dei resti di quelle che sono state definite Mammoth Bones House, gruppi di abitazioni costruite con ossa di mammut. Noi ci confrontiamo proprio con il concetto di rifugio e, provando a dargli nuova forma, cerchiamo di raccontare e immaginare una nuova fase di antropizzazione. Ci domandiamo se nell’era dell’ economia della condivisione la casa possa essere ancora considerata come uno spazio privato, un rifugio in cui nascondersi dal resto della società, un deserto domestico in cui immaginare delle micro-utopie che si configurano come la nostra ultima possibilità di fuga».

Tra le varie iniziative, con plug_in avete pubblicato Primitive Future Office, una serie di doaloghi che indaga sulla possibilità di un’architettura informale, non regolata. Qual è l’obiettivo che vi siete posti?
«Sicuramente alla base di questa pubblicazione, che raccoglie uno studio portato avanti per diversi anni, c’è una riflessione su quello che l’architettura è diventata, strumento nelle mani di una plutocrazia imperante, interessata unicamente a manovre di natura economico-finanziaria. Già nel Cinquecento, Thomas More coniò il termine utopia per descrivere una città ideale completamente agli antipodi rispetto all’Inghilterra del XV secolo; nell’isola felice di More non vi era proprietà privata e si produceva solo per consumo, non per mercato. Probabilmente ripartire da questi drastici esempi del passato è l’unica chiave per evolversi e cominciare a pensare seriamente a un’architettura che abbia anche un ruolo critico, politico ed etico. In questo libro ci siamo avvalsi del parere di ricercatori, architetti e designers per creare un dibattito costruttivo sul futuro della nostra professione».

Ad ottobre sarete ancora a Roma  nella galleria Operativa Arte Contemporanea, dove esporrete nell’ambito degli eventi collaterali della Quadriennale, potete darci qualche anticipazione?
«Partendo dall’istallazione che abbiamo proposto per Una vetrina a febbraio, ci interessa invadere completamente lo spazio, sradicarlo fino a renderlo poco riconoscibile. Ma non vogliamo rovinarvi la sorpresa; per tutti gli altri dettagli, vi aspettiamo a ottobre da Operativa».

Fino al 5 ottobre; Maxxi, via Guido Reni 4,; info: www.fondazionemaxxi.it