Parla Eugenio Viola

Ha inaugurato la Biennale di Venezia e fra le varie curatele dei vari padiglioni c’è Eugenio Viola del Madre che firma il progetto espositivo per il Padiglione Estonia con Not suitable for work, a chairman’s tale, di Jaanus Samma. Lo abbiamo incontrato per capire meglio di cosa si tratta.

Come nasce questa collaborazione? E quali sono le principali tematiche affrontate?

«Nasce da una serie di coincidenze, anche se frequento l’Estonia dal 2007 e ho una certa familiarità con l’interessante milieu artistico locale. Nel 2013 ero in Estonia per curare una mostra di Mark Raidpere, che transitava dalla fondazione Morra Greco all’EKKM di Tallinn e per partecipare, in qualità di giurato, al Köler Prize. Jaanus Samma era tra i finalisti e vinse l’edizione del premio, il più importante in Estonia per gli artisti locali. I criteri di selezione per il progetto chiamato a rappresentare il Padiglione Estone alla 56.Biennale erano improntati all’insegna della trasparenza: abbiamo risposto all’application online e presentato un progetto che è stato poi selezionato, tra undici, da una giuria internazionale, sul quale abbiamo lavorato insieme per un anno. Not Suitable For Work. A Chairman’s Tale è incentrato su una vicenda di omo-discriminazione, contestualizzata storicamente nell’Estonia sovietica. Samma indaga dal 2007 questa tematica scomoda: il microcosmo sommerso della locale comunità LGBTI durante l’occupazione sovietica. È la storia del Presidente (Chairman) di una fattoria collettiva sovietica, coinvolto in un processo degradante per atti omosessuali e condannato a un anno e mezzo di lavori forzati (1966), perdendo in questo modo status, famiglia, dignità sociale e lavoro. Decide allora di cambiare città, diventando un personaggio famigerato nel sommerso microcosmo gay dell’Estonia sovietica, assassinato nel 1990, un anno prima dell’indipendenza estone e della decriminalizzazione dell’omosessualità, per mano di un marinaio russo che si prostituiva. Oggi il Presidente, The Chairman, è considerato una figura quasi semi-leggendaria. Nello sviluppo del progetto abbiamo adottato una prospettiva microstorica, cortocircuitando la storia con le qualità biografiche della cronaca di vita vissuta. Tengo inoltre a sottolineare che a noi non interessa tanto richiamare un determinato avvenimento storico in quanto tale ma piuttosto rifarci alla più ampia questione sui diritti umani, continuamente violati, ieri come oggi. In questo senso, l’indagine sul passato è tesa a gettare una nuova luce sul presente, in termini di propedeuticità. D’altronde l’aggancio con la contemporaneità si palesa sin dal titolo: la sigla NSFW è l’acronimo di una frase disclaimer che appare sui computer pubblici quando si incappa in siti inadatti a un ambiente di lavoro. Una frase che applicata metastoricamente al caso del Chairman suona come una condanna infamante, vissuta da quest’uomo ben oltre l’anno e mezzo di lavori forzati. Il linguaggio informatico richiama anche gli episodi di omofobia (ma non solo) che rimbalzano nel web: dalle leggi contro la propaganda omosessuale promulgate nella Russia di Putin alle lapidazioni dell’Isis. L’installazione è concepita su due livelli diegetici ed è animata da una pluralità di media. Un doppio registro, reale e fittizio, in un’oscillazione costante tra la storia e la sua rappresentazione».

Non è la prima volta che affronti attraverso il dispositivo-mostra il tema dell’omosessualità, protagonista di una delle tue esposizioni più discusse, non per la tematica in sé, ma per le reazioni suscitate e l’ostracismo incontrato. Come in Arte e omosessualità, da Von Gloeden a Pierre et Gilles (Milano-Firenze 2007/2008). Nel caso di Samma l’attenzione si sposta, attraverso una ricognizione storica, sui cosiddetti diritti LGBTI. Che tipo di impatto ti aspetti stavolta? Credi che la ricezione di un tema così delicato possa ancora, nel 2015, incontrare difficoltà?

«Nel caso del progetto di Samma, come ti dicevo, la tematica omosessuale diviene un ipertesto, uno spunto per chiamare in questione tutte le discriminazioni e non solo sessuali, ma anche sociali, politiche, razziali, culturali, religiose. Viviamo purtroppo tempi incerti, caratterizzati da una nuova ondata di vecchi e nuovi fondamentalismi. Per questo il richiamo è più ampio e riguarda i diritti umani in toto. Diverso il caso dell’ormai famigerata Arte e Omosessualità, che era una mostra che indagava una serie di emergenze tematiche nel corpo dell’arte. Ad ogni modo ricordi bene: ho affrontato più volte queste tematiche nel mio percorso critico-curatoriale e lavorato più volte con artisti considerati queer, anche se in genere non amo rinchiuderli in definizioni che rischiano di trasformarsi in una gogna epistemologica. Detto ciò, sono molto curioso delle reazioni. Spero siano comprese le reali intenzioni alla base di questo progetto, che, ne sono consapevole, smuove una tematica scomoda. È un pretesto per gettare luce su una zona grigia della storia estone e tulle le zone grigie autorizzano contro-interpretazioni che a volte sono davvero necessarie. D’altronde l’arte ha la capacità di mostrare le cose attraverso una luce differente. Deve far riflettere».

Marina Abramović, Regina José Galindo sono solo alcuni dei nomi illustri del tuo percorso, nonostante tu appartenga a una generazione giovane di curatori. Qual è il tuo segreto?

«In realtà non ho segreti, se non quello di lavorare in maniera etica, consapevole e seria. Certo nella vita è fondamentale il tempismo e un pizzico di fortuna, ma ritengo fondamentale portare avanti il mio discorso critico e curatoriale, inevitabilmente intrecciati, in modo responsabile. Questo è l’unico, vero segreto per me».

Harald Szeemann ci ha insegnato, tra l’altro, che la mostra non è solo mera esposizione di opere ma mezzo di espressione, modalità di racconto di un’intensità, al di là di stilemi e nozioni. Qual è la tua opinione sullo stato attuale dell’exhibition making?

«La situazione da allora è molto cambiata. Non a caso da più parti si lamenta un assottigliamento dell’istanza critica a favore di un’ipertrofia curatoriale che non necessariamente fa trasparire un’intensità. Personalmente ho sempre concepito le mostre da me curate alla stregua di saggi visivi e mi aspetto di fare la stessa esperienza quando visito una mostra, e mi rendo conto che oggi la norma pare non essere più questa. A questo impoverimento dell’assetto teorico-concettuale, tuttavia, corrisponde spesso una spettacolarizzazione dell’exhibition making, in cui l’istanza critica è spesso subordinata alla spettacolarità del visivo, che si impone sia nei contenitori museali che nelle soluzioni allestitive adottate».

Hai indirizzato la tua linea di ricerca, attraverso mostre e pubblicazioni, verso la dimensione performativa e delle poetiche corporali. Credi sia ancora un sentiero fertile per l’arte contemporanea?

«È assolutamente un sentiero fertile. La performance vive oggi un grande rilancio anche sul piano del dibattito critico e curatoriale. È una branchia sulla quale mi sono specializzato sin dai tempi dell’università: la mia tesi di laurea è stata un lungo lavoro di ricerca e approfondimento su Orlan che mi ha segnato come un viatico. Ed è vero, ho lavorato e lavoro molto con la performance: ho curato al Madre il festival di performance triennale Corpus, arte in azione (2009-2012) e anche da free-lance mi sono ritrovato a lavorare sia con esponenti storicizzati delle poetiche performative, appunto come Orlan e Marina Abramović, sia con esponenti del cosiddetto modern primitivism come Franko B e Ron Athey, sia con artisti più giovani, principalmente di area sudamericana, che riconfigurano ambiti e territori della performance oggi, come Regina Jose Galindo, Maria Jose Arjona, Teresa Margolles, Tania Bruguera, Carlos Martiel».

Se dovessi scegliere le tre mostre che più ti hanno dato soddisfazione, quali indicheresti?

«Non potrei scegliere. Ogni mostra mi ha dato qualcosa di importante in termini di esperienza. Ognuna è parte integrante e fondamentale nella costruzione del mio pensiero e della mia traiettoria critico-curatoriale. Non ho mai fatto una mostra di cui poi mi sia pentito».

Progetti futuri?

«Tanti per fortuna. Ma al momento non posso anticipare nulla, e non per scaramanzia, ma non c’è ancora niente di ufficiale».

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