Risponde Cattelan

Irriverente, spregiudicato, controverso, provocatorio: Maurizio Cattelan ha sempre suscitato opinioni contrastanti, divergenze critiche tra chi lo ha considerato un impostore e chi lo ha osannato per il suo talento e per la sua capacità di narrare il contemporaneo come nessuno mai prima di allora. La sua decisione di lasciare la professione di artista è stato l’ennesimo colpo di scena di una carriera ricca di riconoscimenti, oggi Cattelan inizia il suo percorso da curatore attraverso la presentazione del progetto espositivo inaugurato a Torino lo scorso novembre ed intitolato Shit and Die. Coadiuvato da Myriam Ben Salah e da Marta Papini, Cattelan ha scelto la città sabauda come fonte di ispirazione e ne ha creato un percorso costellato da molteplici radici espressive, dove memorie, tracce, segni e oggetti tra i più disparati narrano un’inedita dimensione immaginifica dell’uomo. Lo abbiamo intervistato per comprendere le ragioni di questa mostra e per ripercorrere un percorso professionale che, a dispetto di qualsiasi giudizio di merito, ha cambiato radicalmente il concetto di arte in Italia e nel mondo.

Platone sosteneva, nel progetto di una società ideale, che un artista poteva disegnare un tavolo ma che non avrebbe avuto le capacità di costruirne uno, quindi, in sostanza, bisognava sbarazzarsi degli artisti, qual è la sua visione dell’arte nel tessuto connettivo del contemporaneo?

«Ho iniziato disegnando tavoli, ma sono sicuro che Platone sarebbe contento di sapere che ho smesso subito: erano davvero inguardabili. Dal mio punto di vista l’arte è un punto di partenza, non di arrivo: parti da lì per dare agli altri i tuoi problemi, come se fossi in terapia. Quando funziona, ti permette di capire cosa ti ha fatto diventare quello che sei».

Il suo ruolo da curatore in Shit and Die ha creato delle corrispondenze inedite tra gli artisti presenti in mostra e il contenitore di palazzo Cavour. Quali sono stati i procedimenti di selezione e di costruzione iconografica dell’esposizione?

«È stato un lavoro di squadra, fatto di centinaia di ore di skype, qualche ora di viaggio e migliaia di mail. Siamo partiti da quello che abbiamo trovato a Torino, nelle collezioni dei musei, e ci abbiamo pazientemente ricamato intorno, allargando il giro man mano che trovavamo opere che ci sembrava che potessero dialogare al meglio con quei reperti, come un sasso buttato nell’acqua. La mostra è il riverbero di quello che abbiamo mandato a fondo».

Arthur Danto in suo celebre scritto definisce l’arte come un sogno a occhi aperti in cui uno stato onirico diviene un’esperienza condivisa, che cosa definisce, secondo la sua esperienza, la qualità di questo sogno condiviso?

«Il mio giornalaio dice spesso: ”alcuni possono sentire la pioggia, altri invece si bagnano e basta”. Probabilmente l’arte è quando tutti credono di sentire la pioggia, anche se in realtà si stanno solo bagnando».

Cosa pensa del contemporaneo in Italia? È una visione catastrofica quella che abbiamo di un paese che è in apnea, dal punto di vista non solo culturale ma anche politico ed economico, o è una percezione che giunge anche a chi, come lei, vive all’estero?

«Purtroppo o per fortuna la mia non è una percezione genuina, dal momento che vivo la metà del tempo in Italia. In realtà mi sento un osservatore esterno a tutto, sia all’Italia che agli Stati Uniti. Ma quando sono all’estero non percepisco visioni catastrofiche sull’Italia, anzi! Anche se a tratti può sembrare uno sguardo bonario più che di stima, l’opinione su di noi in genere è positiva».

Uscirà il prossimo anno il film documentario che racconta la sua vita, qual è stata la sua impressione nel vedersi ritratto su pellicola?

«Aspetto di saperlo quando lo vedrò il prossimo anno! Seriamente, immagino che sarà come per le foto: è l’opposto del dejà vu, quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare. Credo sarà così anche vedendo il film, farò fatica a riconoscermi».

Tra i tanti progetti intrapresi nella sua carriera che cosa le ha lasciato il ricordo più piacevole?

«Senza dubbio gli sbagli e i cambi di programma: i piani b e c sono quasi sempre migliori dei piani a. Essere costretti a cambiare idea ti fa imparare molte cose, di te stesso e di chi ti sta accanto».

Guardando oggi il suo lavoro c’è qualcosa che rinnega o di cui non è pienamente soddisfatto?

«Più o meno la totalità del mio lavoro non mi soddisfa, visto a distanza di anni. Ci sono opere che ho iniziato a pensare e che non hanno mai visto la luce, ma non sono quelle a tormentarmi. Se potessi distruggerei buona parte dei miei lavori, rifarei un nuovo editing, sempre più severo ogni giorno, e non rimarrebbe molto di quello che ho fatto».

Cosa ha in serbo il futuro per Cattelan?

«Temo di avere poche certezze: di sicuro oltre un certo punto non c’è più ritorno, ma spero che quel punto sia ancora lontano».

Fino all’11 gennaio, palazzo Cavour, via Camillo Benso Conte di Cavour 8, Torino; info: www.artissima.it