Antonia Alampi

Il Cairo

Se lo cercate su Google non basta digitare ”Beirut”. È necessario aggiungere un’altra parola, a scelta dell’utente. Quella parola che la mente suggerisce di associare al museo per risalire alle sue tracce. Uno dei modi per favorire l’indicizzazione è scrivergli vicino un nome, quello di Antonia Alampi, la giovane curatrice di questo centro pulsante dell’arte contemporanea del Cairo, in Egitto. Un paese dove la Primavera araba, dal 2012, ha portato caos e polvere. Ma da questo ginepraio politico e sociale è nata una straordinaria consapevolezza, che si è tradotta in un forte dinamismo intellettuale e artistico. In questo contesto si sono sviluppate strutture come il Beirut. Un nome evocativo di paradisi lontani (ma non troppo), un luogo dove le contaminazioni artistiche stanno educando una generazione che ha molto da dire malgrado le difficoltà per farlo. E allora a incanalare e forgiare questi nuovi linguaggi ci pensano strutture come questa, accreditatasi in breve tempo come una culla delle avanguardie. Qui Antonia, italiana classe 1983, lavora insieme a Jens Maier-Rothe, curatore tedesco, scuola Whitney indipendents Study program di New York, Sarah Rifky, curatrice e scrittrice egiziana, Lotta Schäfer, assistente curatoriale. Antonia è un cervello e anima in fuga dall’apatìa italiana. Il suo destino si è incrociato casualmente con quello del Beirut e da questo connubio è nata una grande passione. L’abbiamo voluta conoscere per vedere, tramite i suoi occhi, una realtà nuova, poco conosciuta, ma che è spinta da un fermento artistico quasi ”violento” e senza dubbio affascinante.

Da quando sei al Centro d’arte contemporanea Beirut al Cairo? «Da ottobre 2012. Beirut aveva lanciato una open call internazionale cercando un associate curator, ho semplicemente partecipato alla selezione e sono stata assunta. Il mio interesse per l’Egitto, però, risaliva a qualche tempo prima, al periodo della mia esperienza al de Appel curatorial programme di Amsterdam. Una parte importante del de Appel CP consiste in viaggi di ricerca all’estero, ogni anno diversi rispetto a ciò che l’istituzione considera di particolare interesse dal punto di vista artistico. Così sono finita in Egitto nell’inverno 2011, un momento di grande entusiasmo di massa, poco dopo la cosiddetta rivoluzione e prima dei risultati devastanti delle elezioni politiche. Avevo quindi già conosciuto diversi artisti, giornalisti, attivisti molto in gamba. Una generazione di persone che si stava prendendo la responsabilità di contribuire, anche in condizioni di rischio personale, a un cambiamento radicale della società. Una logica che percepivo in totale contrasto con l’apatia italiana, e forse europea in generale. Avevo visitato istituzioni, tutte molto piccole ma estremamente attive, piuttosto peculiari dal punto di vista dell’organizzazione, caotica ma molto dinamica, e con programmazioni che mi sembravano incisive pur con budget irrisori. Prima di decidere di andare in Egitto stavo negoziando una posizione in Messico, diciamo che quello di cui ero sicura era di voler lasciare l’Europa per un po’».

Puoi parlarci un po’ di questa struttura? «Quando è nata e con quali presupposti e sfide artistiche? «Beirut si fonda sulla convinzione che il cambiamento deve prima essere immaginato, per essere raggiunto. Attraverso le sue attività, che includono mostre, pubblicazioni, progetti discorsivi ed educativi, Beirut vuole esprimere l’importanza del pensiero critico e indipendente per il raggiungimento dell’emancipazione sociale e politica. Le nostre attività sono costruite in risposta alle domande e ai sentimenti sociali che permeano l’Egitto e le sue istituzioni in questo particolare momento storico. L’idea è di valorizzare il dialogo tra diversi campi culturali, come il giornalismo, l’attivismo politico, la filosofia, il cinema, gli studi urbanistici, e di resistere, insieme, al drenaggio cerebrale che la popolazione sta subendo in assenza di istituzioni democratiche. I metodi che utilizziamo dal punto di vista curatoriale variano di continuo, ma una dichiarazione d’intenti esistente fin dall’inizio è il considerare la fondazione e la costruzione di un’istituzione un atto curatoriale in sé. Ciò per noi vuol dire riflettere su come l’attività curatoriale possa inglobare ogni aspetto dell’istituzione stessa: dallo status legale ed economico al management, alle collaborazioni, ecc… Un esempio pratico: abbiamo provveduto alla nostra registrazione legale, Beirut come soggetto giuridico, in dialogo con il duo collaborativo Goldin + Senneby. Tutti i nostri documenti sono ora firmati da e per Goldin + Senneby Llc (società a responsabilità limitata). Questo gesto ha inteso rispondere attivamente a una domanda molto semplice: può un’istituzione artistica esprimersi attraverso il linguaggio dell’arte? Può comportarsi come un’opera d’arte? E può attraverso questo atto incontrare sulla sua strada un pubblico diverso, come finanziatori, partner amministrativi, o magari addirittura entità governative (egiziane)? Questa commistione apparentemente incongrua naturalmente si lega anche a un problema più ampio, che riguarda la realtà legale ed economica delle istituzioni indipendenti in Egitto, e la necessità di registrarsi come aziende in loco ed esistere come not for profit praticamente offshore all’estero. Le ragioni di tutto ciò vanno ricondotte alla censura, a un governo fondamentalmente in conflitto con le istituzioni indipendenti, e a molte altre cose, ma non mi dilungo troppo sull’argomento che meriterebbe un capitolo a sé. Diciamo però che l’idea di affrontare questo problema diventando noi stessi un’opera d’arte, con una registrazione legale simbolicamente assurda, è un modo per parlarne attraverso il linguaggio dell’arte».

Quali progetti state curando in questo periodo? «Una delle caratteristiche di Beirut è il non concepire la programmazione in modo statico e definitivo; la ripensiamo e riplasmiamo in relazione al contesto socio-politico particolarmente instabile in Egitto, e alle domande o alle istanze che ci circondano. La programmazione da fine 2012 a tutto il 2013, per esempio, era stata concepita in stagioni di tre mesi, ognuna delle quali si sviluppava attraverso una serie di attività legate tra loro, che si articolavano a partire da quesiti interconnessi. Da gennaio 2014 invece abbiamo deciso di dedicarci simultaneamente a più progetti di ricerca a lungo termine, con tempistiche che variano dai nove ai dodici mesi. Cito due progetti ai quali stiamo lavorando già da lungo tempo. A Guest Without A Host Is A Ghost è un progetto che riflette su ciò che comporta la totale assenza di collezioni di arte contemporanea (sia pubbliche che private) in Egitto, e che spera di sollecitare il contributo dei privati allo sviluppo e alla crescita della cultura contemporanea del paese. Il progetto è stato concepito in collaborazione con la Kadist Art Foundation. Abbiamo selezionato una trentina di opere della loro collezione per una residenza di nove mesi al Cairo. In questo modo Beirut è divenuta temporaneamente un’istituzione con una propria collezione (fino al 2015), lavorando in sinergia con altri spazi artistici della città e promuovendo l’incontro con l’arte al di là della durata delle mostre. Per questo progetto sto strutturando anche un programma curatoriale per collezionisti con l’intento di stimolarli a diventare, in futuro, anche un po’ dei mecenati. Un altro progetto che sto curando e che dirigerò è The Imaginary School Program, un’iniziativa che trae spunto da un interesse per il ruolo educativo delle istituzioni. Si tratta di un programma teorico di otto mesi, multidisciplinare e con un’enfasi su metodi pedagogici sperimentali e basati molto sulla pratica, cui da ottobre parteciperanno dodici persone. L’obiettivo è creare uno spazio di riflessione e di critica su modelli istituzionali radicali esaminandone il potenziale politico, con un’enfasi sul contesto particolarmente vivo e reattivo che, pur tra ovvie difficoltà, il Cairo offre. Si analizzeranno le strutture legali ed economiche nelle quali le istituzioni operano, senza trascurare gli aspetti legati alla legalità, all’economia, alla responsabilità, al linguaggio, sotto un profilo sia pragmatico sia filosofico».

Perché si chiama Beirut? «Per molti motivi, non c’è una risposta unica e definitiva. Innanzitutto piaceva l’idea di distaccarsi dalle specifiche della città e quindi non esoticizzare la provenienza dell’istituzione stessa, ma giocarci un po’. E poi Beirut (la città) nell’immaginario collettivo della regione rappresenta il luogo della libertà, della vita notturna, il porto franco degli scrittori e degli intellettuali, che a Beirut trovano libertà spesso non riconosciute altrove in Medio Oriente. Non è da sottovalutare l’aspetto eufonico del nome, secco, breve, strano, quindi d’impatto e il fatto che siamo praticamente impossibili da trovare su google a meno che non si sappia almeno qualcosa di noi, da associare alla ricerca del nome. Inoltre Beirut è sempre scritto in corsivo, altro aspetto di lieve ma fondamentale distinzione. Diciamo che menzionarci o cercarci richiede sempre un po’ di attenzione».

I centri dell’arte contemporanea dell’Estremo Oriente negli ultimi anni si stanno catapultando al centro dello scenario globale del sistema. Come descriveresti, invece, la scena mediorientale? Che sensibilità stai riscontrando? «Difficile e complicato. Non posso parlare della regione genericamente. L’Egitto e i paesi del Golfo per esempio, seppur nella stessa area, sono mondi molto lontani. Di certo dal 2011 a oggi c’è una grande attenzione internazionale sulla regione, cinicamente dovuta alla seduzione che un luogo post-rivoluzionario riveste nell’immaginario mondiale. Basti guardare alla mostra Here and Elsewhere da poco aperta al New Museum, istituzione sempre attenta ai nuovi trend (e lo dico nel senso meno positivo del termine), la più grande mostra di artisti più o meno legati al mondo arabo mai realizzata negli Stati Uniti. E dal Cairo passano continuamente curatori e galleristi da ogni parte del mondo a caccia di nuovi artisti, possibilmente politicamente impegnati e magari con storie personali difficili, da poter lanciare sul mercato».

Chi sono le ”colonne” del Beirut? «Jens Maier-Rothe, curatore tedesco scuola Whitney Indipendent Study Program di New York; Sarah Rifky, curatrice e scrittrice egiziana, una degli agents per l’ultima Documenta, e quest’anno anche Lotta Schäfer, la nostra giovane assistente curatoriale. Ed io, naturalmente. Siamo una mini e baby istituzione, non abbiamo mai superato le 5 persone di staff includendo il custode».

La struttura come si sostiene? «Neanche un centesimo viene dall’Egitto. Abbiamo qualche contributo economico strutturale soprattutto proveniente da fondazioni che hanno interesse nel sostenere la regione, e poi piccoli grants di progetto in progetto».

Come tu saprai molte giovani figure professionali italiane nel mondo dell’arte operano all’estero. Cosa manca in Italia? Il Belpaese ha perso forse la sua attrattiva? «Personalmente credo che in Italia ci siano spesso persone prive di competenze in ruoli di rilievo (naturalmente non solo in Italia), e ho spesso visto crescere curatori o artisti attraverso canali molto opachi. Inoltre devo ammettere che il dibattito critico generale è un po’ povero, si sentono più o meno sempre le stesse voci, e piuttosto isolato all’interno dei confini italiani. E poi, come tutti sappiamo, troppa influenza della politica nella direzione di istituzioni artistiche Spero che le cose cambino, ma c’è bisogno di una presa di coscienza collettiva per questo».

Di cosa ha bisogno l’art system italiano? «Di tante cose, ne scelgo una. In Italia c’è una scarsa presenza di istituzioni piccole, mentre credo che siano proprio quelle, in larga misura, a fare il lavoro più interessante rispetto alle gigantesche ”macchine museali”. Purtroppo i piccoli, che pure da un punto di vista economico ottimizzano spesso al meglio l’uso delle risorse, vengono lasciati morire economicamente da parte delle istituzioni pubbliche. Peccato, perché potrebbero dare linfa fondamentale al sistema. E ahimè, si preferisce investire milioni di euro in mostre o eventi temporanei, invece di investire in progetti più modesti (non nel senso della qualità) ma più a lungo termine e con ricadute permanenti sul territorio».

Info: http://beirutbeirut.org/en/