Maier madre del selfie?

Selfie è un neologismo contemporaneo, coniato nel 2005 e inserito solo nel 2013 nel dizionario online di Oxford. Il significato è noto a tutti e più che di autoritratto si dovrebbe parlare di un autoritratto scattato esclusivamente per essere poi condiviso sui social network. Il termine ovviamente ha dato una precisazione social al più generale ritrarsi che come genere pittorico è invece antico come la stessa pittura. Autoritratto che però ha una storia ben più giovane se parliamo di fotografia. Robert Cornelius da perfetto sconosciuto che era, è riuscito a conquistarsi una pagina su Wikipedia per essere stato molto probabilmente il primo a scattarsi una foto, 1839 e primo selfie fu. La tecnologia ci mette del suo e la fotografia da complicato passatempo per chimici si facilita e raggiunge anche un pubblico che di legami e ampolle non ne sapeva molto. Quindi, se sei una gran duchessa russa tredicenne con una kodak box nuova di fiamma e davanti hai un bello specchio, scattarsi una foto non è poi così difficile: Anastasia Nikolaevna, 1900, ovvero il primo selfie in rosa. Spesso quando si conia un nuovo termine, una nuova corrente di pensiero o artistica, il primo passo per giustificarla è trovare degli antecedenti storici che in qualche modo l’hanno anticipata. Il selfie non ha fatto eccezione, ha bruciato le tappe e con meno di un decennio di vita alle spalle è finito al Moma di New York nel 2013 con la mostra: Art in Translation: Selfie, The 20/20 Experience.

Certo, passa un mondo fra scattarsi una foto perché non si ha nient’altro da fotografare e fotografare se stessi perché non si vuole fotografare nient’altro. Dal primo autoritratto in rosa, il selfie femminile è diventata una pratica diffusa che trova uno dei massimi esempi nel suo fondere narcisismo e arte in Francesca Woodman. Diverso, sotto ogni piano, ma unita nel selfie, è il caso della fotografa Vivian Maier che tanto per cominciare non è mai stata una fotografa (in vita non ha mai fatto una mostra, nessuno mai ha scritto di lei) ma che ha condotto la sua esistenza lavorando come tata e relegando il suo hobby al tempo libero. Talmente tanto hobby che Maier non solo non ha mai esposto ma non ha neanche stampato molti dei 100mila negativi che ha accumulato in 83 anni di vita (1926-2009). Per dire, se John Maloof, collezionista di fotografia e agente immobiliare, non avesse mai comprato i negativi di quella che allora era una defunta sconosciuta, non avremmo mai conosciuto una sola delle sue fotografie, il che fa cadere ogni accusa di femminile narcisismo che le si potrebbe imputare.

Maier, protagonista di una personale al Jeu de paume di Parigi fino al primo giugno, è nata a New York ma passa gran parte della sua infanzia e adolescenza in Francia, terra natale della madre. A venticinque anni ritorna negli Stati Uniti, a New York per poi spostarsi definitivamente a Chicago dove comincia il suo lavoro da baby sitter che porta avanti per tutta la vita alternandolo a delle lunghe passeggiate per la città sotto braccio con la su Rolleiflex. Nel 2008 scivola su una lastra di ghiaccio, sbatte la testa e non si riprenderà più. Muore un anno dopo nel 2009. Senza Maloof che si prodigò molto (da buon agente immobiliare) per far conoscere il suo nuovo acquisto, quella della Maier sarebbe rimasta una vita di una persona qualsiasi Ora la baby sitter di Chicago viene paragonata a maestri della fotografia come Cartier Bresson, Robert Frank e William Klein, padri, gli ultimi due, della fotografia di strada, genere al quale si potrebbe iscrivere senza problemi la produzione della fotografa non fotografa.

Maier e selfie dicevamo. Rapporto ambiguo anche se per molti versi, e per molti, è considerata una maestra della disciplina. Se da una parte è vero che ogni specchio per la fotografa si trasforma in una possibilità di autoritratto (bellissimo il suo volto che taglia il muro di mattoni, riflesso stretto fra le mani di un traslocatore), d’altra parte è anche vero che non c’era in Maier nessuna intenzione di condividere alcunché. Una della caratteristiche del selfie è invece proprio la condivisione, di più, una della caratteristiche dell’autoritratto in generale e femminile in particolare è la condivisione. La fotografa invece non solo non stampava i suoi negativi ma quei pochi che portava alla luce non li faceva vedere a nessuno. Caratteristica strana per un fotografo quella di trarre soddisfazione dal solo scatto, senza sentire la necessità di vedere i risultati del proprio lavoro, come a fidarsi ciecamente del proprio occhio senza bisogno di ulteriori conferme. La fotografia per la Maier era veramente come un colpo di pistola, secco e preciso, che lascia un morto da nascondere in silenzio e solitudine. Per questo la Maier non è esattamente la madre del selfie, anche se le sue foto sembrano dimostrare il contrario.