Biennale: best of del direttore

L’edizione appena inaugurata della biennale di Venezia mi é decisamente piaciuta. Il taglio culturale imposto da Massimiliano Gioni si è rivelato efficace in termini di intuizione concettuale sulle tendenze migliori del contemporaneo a livello globale e adeguato alle aspettative generali che chiedevano innovazione e qualità. Una linea, quella di Gioni, di fatto seguita da molti curatori a riprova della sua buona ispirazione. L’eccellente padiglione Italia, ideato da Bartolomeo Pietromarchi, ne è la riprova migliore e rappresenta la cuspide di questa ritrovata vena. Dopo la gestione di un incompetente, nel senso letterale del termine, come Vittorio Sgarbi, le cose per il nostro padiglione sono dunque ritornate al loro posto. L’aria di crisi c’è e si è respirata, ma almeno abbiamo dato dimostrazione che anche in tempi difficili l’Italia è in grado di dire la sua senza alcun timore referenziale nei confronti dell’usurato sistema anglosassone e nord europeo e tantomeno nei confronti dei rampanti paesi asiatici.

Nella mia memoria, che è il luogo dove vado a frugare quando devo rinvenire ciò che mi ha colpito, del padiglione Italia segnalerei almeno due lavori. La stanza di Marco Tirelli e Giulio Paolini, ricca, intensa, articolata e poi i lavori di Francesca Grilli e di Elisabetta Benassi, diversi e lontani tra loro ma entambi figli di una sensibilità tutta femminile. In particolare il rapporto tra suono e silenzio che la Grilli ha affrontato con Massimo Bartolini mi è parso particolarmente efficace. Ma all’Arsenale le cose belle da vedere (alcune per la verità anche evitabili) erano moltissime. Io qui, tra i tanti, vi segnalo almeno due padiglioni. Quello del Vaticano, per la prima volta a Venezia, che l’occhio e il coraggio di Micol Forti e di Antonio Paolucci, sostenuti dalla tempra di un intellettuale purissimo qual è il cardinal Angelo Ravasi, hanno saputo proporre come forse meglio non avrebbero potuto. Oppure il padiglione cinese tutto centrato sui video alquanto sofisticati, a riprova di una certa vocazione verso la ricerca immaginifica.

Tra i numerosissimi programmi collaterali anche alcune chicche. Ancora una presenza cinese con Crossover, un programma di confronto tra artisti italiani e del distretto di Hubei. Tra gli italiani spiccavano Matteo Basilè, Aron Demetz e Teresa Emanuele, tra i cinesi Ma Lin, Xia Feng e He Deqiu. E ancora Cina con l’immenso Ai Weiwei presente con due lavori rimarcabili: uno che ricostruiva la sua prigionia, l’altro che indagava sulle cause di un disastroso terremoto. Entrambi strepitosi. Notevole anche il lavoro di un neozelandese, Bill Culbert, che con i vecchi cari neon e altri oggetti di warholliana memoria ha saputo ricreare brillanti atmosfere neopop. Oppure la delicatezza dei lavori di Oliviero Rainadi che con le sue raffinate sculture ha cambiato i connotati al colleggio internazionale di San Servolo. E infine, una spendida personale di Marc Quinn a San Giorgio: un pò il meglio della sua produzione presentata alle parolimpiadi di Londra perfettamente installata in questo impareggiabile isolotto attaccato alla Giudecca. Potrei continuare perchè come ho detto di cose belle ne ho viste tante ma mi fermo invitandovi caldamente ad andare a Venezia. Crisi o non crisi questa nostra biennale merita di essere vista.