Beecroft, per un profilo

Guardare una performance di Vanessa Beecroft è imbarazzante quanto sorridere al tipo che esce dal bagno, dopo che avevi aperto la porta, pensando fosse libero. È l’idea di una condivisione estrema (il nudo) e non richiesta che fa sentire lo spettatore, in entrambi i casi, colpevole. Le modelle della Beecroft sono bellissime donne senza veli che accolgono visitatori ben vestiti senza degnarli di una sola occhiata. Nude e lontane come il marmo, come il tipo che esce dalla porta, obbligano lo sguardo. Sono situazioni che costruiscono relazioni forzate e violente (non è certo un caso che il filosofo francese Nicolas Bourriaud ha inserito Vanessa nel suo imprescindibile Estetica relazionale). Ogni spettatore (se mai lo è stato) con la Beecroft non è più innocente.

Comprensibile, quindi, che agli inizi degli anni Novanta cadeva sulle sue prime performance dell’artista una pioggia di critiche e offese. La donna vista come strumento, la donna usata solo per il suo corpo, la pornografia e la ricerca dello scandalo a tutti i costi erano i risentimenti più frequenti nei confronti della Beecroft. «Penso di aver disegnato – dice la creativa durante l’incontro il Gioco serio dell’arte, l’otto maggio a palazzo Barberini – modelle nude dentro una stanza un’infinità di volte mentre studiavo all’accademia di Belle arti. È lì che mi hanno insegnato a guardare il corpo come un solido, un insieme di linee e curve, niente di più. Ricordo che veniva tralasciata ogni sfumatura psicologica. Quello che ho fatto per risaltare il dato umano è stato sostituire il disegno della modella con la modella vera e propria, moltiplicando tutto per trenta».

Tante erano le donne la prima volta prese dalla Beecroft per la sua performance nella galleria milanese di Luciano Inga Ping. VB1 era il titolo dell’opera, diventato un classico, dove nel tempo cambia solo la parte numerica mentre le iniziali dell’artista rimangono invariate anche per le creazioni successive. «Sono stata mal interpretata – ricorda Vanessa – accusata di volgarità. Per me le ragazze sono sempre state sante contemporanee, belle, pure e nude». Erano appunto gli anni Novanta, a essere precisi il ’93, e cominciava a delinearsi la rivoluzione che avrebbe portato a internet, quando oramai il mondo globalizzato era una certezza. Un ottimo specchio di questo assottigliamento di differenze è proprio VB1 dove la Beecroft scegli tutte modelle simili e tutte nude le mette in galleria. Se a un primo colpo d’occhio sembrano tutte uguali (o quanto meno dovrebbero impedendo un differenziazione attraverso il vestiario) le modelle (come è giusto che sia) sono tutte diverse e lo sono per via dei particolari che in una tale situazione vengono naturalmente esaltati. «Per me è un’ossessione – confessa l’artista – trovare persone che si assomigliano fra loro come a formare una grande famiglia, forse perché non l’ho mai avuta o perché mi è mancata. La mia arte è un gioco fatto di particolari dove niente è manifesto. Per esempio non mi sono mai accorta di portare solo donne belle, credevo di portare solo donne simili».

Già da questa prima performance è chiara la doppia interpretazione che caratterizza tutto il lavoro della Beecroft. Donne nude che invece di richiamarsi alla volgarità si ispirano a un modello di bellezza antico e casto come una statua; ragazze simili ma che vogliono richiamarsi all’unicità del singolo. Niente è mai diretto in un suo lavoro, tutto è tensione. Spesso l’artista preferisce un materiale a un altro o una razza dall’altra in base al colore e non al significato che questa scelta comporta. Tutto, infine e soprattutto, deve essere bello.

Nello stesso periodo, dicevamo anni Novanta, mette la testa nel mondo dell’arte anche Maurizio Cattelan e un Damien Hirst, ancora indeciso sul da farsi, gira il video dei Blur, Country House mentre alle sue spalle sta crescendo la Yough British Art della quale diventerà un esponente di spicco. Il mondo dell’arte sta cambiando, il mondo dell’arte sta diventando mediatico. Dopo la Transavanguardia e dopo il Neoespressionismo che negli anni Ottanta avevano segnato un ritorno alla pittura, si ritorna a sperimentare, come nei Settanta, sui confini dell’arte spostando il concettuale che aveva invaso la creatività vent’anni fa sulla bellezza e sullo stupore. La Beecroft, in maniera evidente, non è estranea a queste dinamiche.

Per capire di cosa parliamo basta vedere uno stralcio di video girato per una performance (VB55) alle Neue Nationalgalerie di Berlino del 2005. Per questa occasione l’artista non ha selezionato modelle ma ha preso cento donne che si sono rese disponibili per l’happening. Sembrano saltati quindi i criteri di somiglianza e bellezza. Se questo può essere vero per il primo, non lo è certo per il secondo. La Beecroft ipnotizza le sue volontarie berlinesi con dei dettami che devono seguire durante l’evento, come, per esempio, non guardare il pubblico, quando si è stanche sedersi, muoversi sempre lentamente, non ridere, essere sole, essere indipendenti, essere inaprocciabili. Tutto serve la definizione di un’immagine costruita come se fosse dipinta su una tela, di donne distanti e inumane dirette da una composizione geometrica studiata. Questa serie di comportamenti rende il gruppo un quadro vivo, un’opera d’arte che respira. Quello che non fanno le ragazze, lo fa lo spazio della galleria che rinnova continuamente lo stupore giocando con le vetrate trasparenti che danno sulla strada, sulla realtà, mai così distante da 100 donne nude tutte insieme messe dentro a un quadrato, lontane (sentimentalmente) dallo spettatore anni luce. Nel complesso ne viene fuori una cosa tanto ben studiata che da qualunque angolo e con qualunque movimento si muove la camera, quello che riprende è sempre bello e inquietante. E se le ragazze stanno lì come comparse, come burattini nelle mani della Beecroft che quindi diventa regista, quello che abbiamo di fronte ai nostri occhi è un film, è uno spettacolo che fonde tanto l’affresco rinascimentale quanto il kolossal hollywoodiano. È spingendo su questo contrasto che è potuta venire fuori la figura e la poetica di Francesco Vezzoli che butta dentro trash, sesso e alto cinema dando vita a un opera enigmatica come Calligola. L’idea di arte come spettacolo, dunque, è forse l’eredità più grande che ci hanno lasciato gli artisti dei primi anni Novanta.

È solo nel 2001 che la Beecroft risponde alle accuse che la dipingono come una sfruttatrice del corpo femminile. Il punto sulla questione, l’artista, lo fa al Guggenheim museum di Venezia con VB47 dove per provocazione copre il volto delle sue modelle azzerando totalmente la dimensione umana e trasformandole in manichini tanto simili a quelli del De Chirico surrealista. «Tu tratti le donne come oggetti, mi dicevano – ricorda l’artista – sì, perché no, volevo dire con questa performance». Il fatto che persone diverse vedano nelle opere della Beecroft cose opposte non è un contrasto. Da una parte c’è chi ci legge un’idea di orgoglio femminile, di emancipazione, anche; e dall’altra c’è chi sente la banalizzazione del corpo della donna, così umiliata; il tutto rientra perfettamente nella dimensione indiretta e doppia che caratterizza l’opera dell’artista. E quel che è peggio, è che non c’è un modo giusto di vedere la questione, è stata creata per essere ambigua, per suscitare tensione e imbarazzo in chi la guarda.

Solo due volte la Beecroft ha utilizzato uomini nei suoi lavori e una di queste è stata al Pac di Milano nel 2009.«Non ho un vero interesse per l’uomo nelle mie creazioni, mi interessa molto di più la donna – dice l’artista – non posso, alla fine, parlare di ciò che non conosco». Il lavoro nel capoluogo lombardo si chiama VB65 e schiera una trentina di sudafricani vestiti in smoking, seduti dietro un tavolo, di fronte agli spettatori, a mangiare pollo e fumare. L’artista veniva da un lungo soggiorno in Sudafrica ed era facile vedere la performance come una critica all’influenza dell’occidente su queste terre che costringe i loro abitanti a pratiche alimentari e sociali non proprie. Il motivo c’è, ma Vanessa non vuole essere la salvatrice di nessuno o l’eroina di qualche mondo in via d’estinzione. Ciò che l’affascinava in questo caso era il muro scuro di sudafricani, l’odore del pollo cucinato dentro a un museo, la reazione del pubblico costretto a vedere mangiare della gente che neanche al cinema. Il pollo, oltre ad essere un alimento poco mangiato in Africa per la Beecroft rappresenta anche la differenza fra uomo e donna «Non credo di aver mai mangiato un pollo in vita mia – azzarda – e mi piaceva l’idea di vederlo in mano solo a degli uomini, come se non fosse anche una cosa da donne». Lo dicevamo prima, non c’è un’unica chiave di lettura per le sue opere. Questa è un arma a doppio taglio che se da una parte lascia libera l’interpretazione, dall’altra in nome di questa libertà si sentono e si leggono cose che rasentano il ridicolo. Paragonare un seno di una tedesca, presa a caso per le strade di Berlino, alle forme morbide di una Maria raffaellesca, rende bene l’idea della questione.

«Può sembrare strano – conclude la Beecroft – ma sono sempre stata interessata all’arte astratta, preferendola a quella figurativa. Credo che prima o poi realizzerò anche io qualcosa di meno concreto». Meno assurdo di quanto possa apparire, l’artista deve alla geometria molte delle sue composizioni e l’idea di fondo della sua arte, lo spaesamento che questa crea, trovano le loro matrici negli anni Settanta, anni concettuali e astratti per definizione. «Dopo vent’anni di performance – continua – dopo aver faticato per far accettare questo tipo di espressione, ultimamente mi ritrovo di nuovo, come all’inizio con una modella in una stanza e una matita in mano». Non è molto lontano un ritorno all’artigianato, in un mondo dove tutto o quasi è da tutti riproducibile e dove le performance (ormai verso la totale saturazione) si fanno in apertura alla presentazioni di libri.