Mastrovito, l'attimo ironico del peccato

Nel panorama serioso e autoreferenziale dell’arte contemporanea, l’ironia, come strumento efficace di comunicazione creativa, e l’entusiasmo, come prima fonte d’ispirazione, sono doti difficili da individuare. Quando la cifra di un artista viene determinata da queste due variabili, il risultato non fatica ad affermarsi. O meglio, un po’ bisogna stringere i denti e affrontare i soliti sacrifici, ma, una volta superata la soglia tra anonimato e riconoscimento, il più è fatto. L’arte diventa il mestiere della vita, divertente come un hobby, ma non meno impegnativo. È quello che capita ad Andrea Mastrovito, poco più che trentenne bergamasco, già tra i protagonisti della Quadriennale di Roma e vincitore del premio New York, città dove ha deciso di vivere, con personali prestigiose in Italia e all’estero. L’ultima, ad aprile, lo ha visto protagonista a casa Testori a Novate Milanese, in qualità di vincitore della rassegna Giorni felici. Mastrovito racconta la nostra realtà, e questo è normale per un artista contemporaneo. La sua particolarità è che cerca di farlo esprimendo e suscitando nello spettatore stupore e meraviglia per ciò che lo circonda. Una natura ritrovata che si fa paradiso terrestre, creature favolose, animali e farfalle a invadere spazi con spontaneità, naturalezza appunto. Il tratto è sicuro, la mano traccia i contorni di luoghi incantati, gli stessi, primordiali, che vivono in ognuno di noi, e per questo diventano reali, possibili. La storia appare chiara, predispone al sorriso fresco di un bambino. Un gioco riuscito quell’intreccio di colori pastello nelle carte, nei collage, nelle installazioni o nei video, un gioco che convince e appassiona, mai scontato nel risultato finale, dove gli osservatori vengono inevitabilmente coinvolti e sedotti. Mastrovito è artista di grandi passioni, tra le altre l’Atalanta, squadra della sua città natale che segue con fede incrollabile, e l’arte, fatale emergenza vitale trasformata in professione. Impegnato per la mostra “Easy come, easy go”, le sue risposte tradiscono ancora una volta l’indole ironica e divertente del personaggio.

Classe 1978, artista giovane ma già affermato, con grandi mostre all’attivo in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Quando ti sei reso conto che da grande avresti fatto questo lavoro?
«La consapevolezza? Mi è venuta incontro da sola, un giorno in accademia. C’era Marco Cingolani che s’incazzava con tutti e diceva: “Ma voi pensate di venir qui al mercoledì e al giovedì a fare 7-8 ore di pittura e diventare artisti così? Non avete speranza”. Io ero sul mio trespolo intento a dipingere una carta gigantesca, con la musica a palla nelle cuffie, ma le sue urla le sentivo bene lo stesso. Ci ho pensato su. Aveva ragione. Ho cominciato a dipingere e disegnare tutti i giorni. Da allora non ho più smesso».

Ci sono dei punti di riferimento? Degli artisti-santino ai quali ti rivolgi per protezione o ispirazione?
«Ultimamente quando mi trovo in difficoltà, in cerca di un’idea, mi metto a sfogliare libri su Albrecht Dürer, Alighiero Boetti e Damian Ortega. Funziona».

Se dovessi spiegare a un profano lo spirito dei tuoi lavori, da dove inizieresti?

«Dal classico c’era una volta…».

In molte opere è forte il richiamo alla natura, un posto primordiale, un’Eden, o un luogo incantato. Cosa rappresenta e come vorresti fosse percepita?
«Dici bene: un Eden. Spesso mi capita di raffigurare Adamo ed Eva. Il mio immaginario è sempre archetipico. Nei miei lavori, se una donna e un uomo diventano automaticamente immagini di Adamo ed Eva, allo stesso modo ogni rappresentazione naturalistica è riconducibile al giardino dell’Eden, a una situazione leggermente antecedente al peccato originale. Direi, anzi, contemporanea al peccato originale. Immagina di bloccare il tempo nell’istante in cui Adamo sta prendendo a calci l’albero del bene e del male per far cadere la mela. Sì, so che non è andata esattamente così ma, Saramago docet, non c’erano mica altri testimoni a quell’epoca. Ecco,
«Boetti ci ha insegnato che “scrivere con la sinistra è disegnare”. Se si prende in mano la matita, si prende in mano un oggetto che porta con sé tanta di quella storia, dalla letteratura alla scienza, dalla musica all’arte che sembra impossibile che, ogni volta, riesca a stupirti con qualcosa di nuovo. Eppure succede. Perché, inevitabilmente, il disegno è alla base di tutto quel che sappiamo e sappiamo riconoscere: dal latino de-signum, “notare con segni”, ovvero, appunto, “conoscere, riconoscere”, “decifrare” il mondo esterno e interno».

C’è una grande carica ironica nei tuoi lavori. Da cosa nasce?
«Sto cercando di capirlo anch’io. Forse dal fatto di essere sempre un po’ “easy come, easy go”».

Aprile ti ha visto impegnato a casa Testori, in qualità di vincitore della rassegna di artisti “under 35” dello scorso giugno. Una grande antologica “Easy come, easy go”: perché questo titolo? Cosa hai presentato al pubblico tra nuovi e vecchi lavori?
«Il titolo è, appunto, carico di molti significati, e si rifà a un celebre verso di “Bohemian rhapsody”. Diciamo che riprende, un po’, la mia condizione di indolenza di fronte ai cambiamenti e alle scelte della vita quotidiana. Cosa mostro? Beh, ci ho lavorato per mesi. Dalle aiuole di libri, alla biblioteca fotocopiata, ai primissimi “collage” mai realizzati, e finora praticamente mai esposti al pubblico, a una serie di 26 autoritratti a matita inediti, da un nuovissimo lavoro “site specific” realizzato con nastro adesivo sulle tapparelle della casa, ai lavori realizzati intagliando le pareti, dai chiodini sul polistirolo a una selezione di video realizzati negli ultimi anni fino a una stanza con un raccontino stampato in mille copie».

Prossimi progetti in cantiere?

«Dal 4 al 10 aprile sono stato al Museo del Novecento a Milano con una performance pittorico-partecipativa dal titolo Le cinque giornate. Quindi un paio di mostre qui in Italia e poi un grosso progetto a Londra, non dico nulla di più, incrocio le dita. E la personale da 1000 eventi a settembre, con una sorpresa. Nel frattempo me ne torno a New York, per viverci, stavolta. E vediamo cosa succede».

L’ARTISTA
Mostre prestigiose all’attivo, vincitore del premio New York

Andrea Mastrovito è nato a Bergamo il 12 maggio 1978. Vive e lavora a New York e nella sua città natale. Laureato in Belle arti all’accademia Carrara di Bergamo nel 2001, comincia a esporre in sedi internazionali con gli “Italian boys”, alla galleria Analix Forever a Ginevra. Nel 2003 la prima personale milanese da The flat-Massimo Carasi. Nel 2005 è alla fondazione Sandretto Re Rebaudengo e partecipa alla II Biennale di Praga. Nel 2006 Andrea Bruciati lo sceglie per la prima personale pubblica alla Gcac di Monfalcone. Nel 2007 viene selezionato da Paolo Colombo per Apocalittici e integrati al Maxxi di Roma e da Marco Bazzini per Nessuna paura al museo Pecci di Prato. Sempre nel 2007 vince il premio New York. Partecipa alla XV Quadriennale a Roma, nel 2008 (anno in cui installa 9.000 farfalle di carta nera da Dior a Parigi), mentre nel 2009 arriva la prima personale museale all’estero, al Centre d’art contemporain di Lacoux, e la collettiva “Slash/Paper under the knife” al Museum of art and design di New York. Nel 2010 prosegue la sua attività a livello internazionale con mostre pubbliche in America, Svizzera, Belgio e Italia e a luglio si aggiudica il premio del pubblico alla mostra Giorni felici a casa Testori. Info: www.andreamastrovito.com.