Biennale, i film dell’America latina 2

Per il padiglione dell’America Latina, Iila (Istituto Italo-Latino Americano), all’Arsenale, vi è la mostra el Atlas del Imperio. Un vero e proprio immaginario atlante culturale e che mappa trasformazioni in atto nei singoli paesi e osmosi che ne valicano i confini. Tra le opere esposte, con una preponderanza di installazioni e video, risultano estremamente interessanti due casi di stretta collaborazione, ovvero artisti che lavorano in una fluida simbiosi di intenti, in un lavoro di gruppo che sfocia nella Biennale, consolidato da anni di esperienze in comune. Si tratta del progetto del duo di filmakers cileni León&Cociña, che presentano Los Andes, e gli ecuadoriani Miguel Alvear e Patricio Andrade, con il film Black Mama.

Entrambi i gruppi, pur con peculiarità assolutamente indipendenti nell’esplorazione delle tecniche cinematografiche e con modalità differenti di ricerca, lavorano principalmente sulla trasformazione dell’identità collettiva, creando una propria epopea. Punti di contatto nelle due opere sono le stratificazione di tradizioni, credenze, mitologie, religioni, del proprio paese, utilizzando un’immensa commistione di riferimenti noti come punto di partenza per una nuova via di fare arte, attraverso il viaggio. Ed entrambi i lavori che vengono presentati sono quasi viaggi per gli artisti stessi, perché progetti portati avanti da lungo tempo, e tutt’ora in corso. Abbiamo intervistato Cristobal Leòn che insieme a Joaquin Cociña è un filmakers appena trentenne, impegnato prima a Santiago del Cile poi a Amsterdam e Berlino, fino a rientrare entrambi, recentemente, nel loro paese d’origine. I loro video hanno raggiunto un notevole successo e riconoscimenti in Cile, Usa, ed Europa. I loro autoritratti sono appena di fronte alla proiezione, due fantocci di cartapesta inginocchiati che fuoriescono dalle profondità della terra.

Dove sentite che è meglio vivere, per fare arte?

«Credo in questo momento sia meglio stare a Santiago. Sta succedendo qualcosa, adesso, in città, c’è molta energia nell’aria, stanno aprendo molti spazi alternativi dedicati all’arte, anche molto piccoli, ci sono molti giovani che fanno cose nuove, molti registi che girano. C’è una sorta di esplosione artistica – almeno è quello che io sento. E dopo anni che ho vissuto all’estero, sono felice di riconoscere cose a me familiari, ma anche di vedere le novità».

Com’è iniziata la vostra collaborazione?

«Abbiamo studiato entrambi a Santiago, all’università Cattolica – non siamo cattolici, tengo a precisarlo, che sia chiaro – io ho ero iscritto a disegno, Joaquin ad arte. Abbiamo studiato insieme e intorno al 2007 abbiamo iniziamo anche a lavorare insieme. Con un’animazione che si chiamava Lucìa. Che vinse molti premi. Abbiamo, poi, iniziato a lavorare più ufficialmente come un duo».

Scrivendo dal principio?

«Dalla scrittura al montaggio. La realtà è che a entrambi piace scrivere, disegnare, modellare, fotografare, riprendere, e dunque facciamo tutto questo a rotazione: un giorno ho io la macchina fotografica e lui dipinge, il giorno seguente ci scambiamo i ruoli. Senza una vera e propria programmazione. Lavoriamo principalmente con l’animazione – in stop-motion e non – ma non unicamente. Utilizziamo il disegno, la pittura, la scultura, l’installazione, la fotografia, giriamo anche film in cui recitano attori, abbiamo collaborato con coreografi».

Nel vostro lavoro si trova un motivo d’ispirazione nei fumetti, per i vostri personaggi, ambientazioni e mostri?

«Da bambino ero un grande lettore di fumetti. Ancora ne leggo, ma non so se ci sono oggi delle cose che mi legano a loro».

E di street art ti interessi?

«Non realmente. Non la seguo per niente. Penso che l’ispirazione sia piuttosto nel mondo della letteratura, dell’arte e del cinema».

Quanto c’è di mitologia?

«Molto. C’è una mescolanza di miti diversi, greci, latinoamericani. E anche di religione».

Senza svelare tutto il video, verso il finale l’ambiente si trasforma nell’interno di una chiesa, è esatto?

«Ti posso spiegare il contesto. Questo film fa parte di una serie che si chiama Il Terzo mondo – su cui stiamo lavorando da due anni. Tentiamo di creare una nostra mitologia, giochiamo a fare i profeti, inventandocela. Ogni video è un nuovo capitolo di questa mitologia».

Siete alla genesi, chiaro.

«Questo video in particolare è una specie di rivelazione che annuncia la nascita di una nuova civilizzazione, quella de Los Andes, e pone questa religione in latino-america. Questa è l’idea. Da qui viene il tempio».

Dunque questa non è il video finale. Avete già un’idea di quanto volete fare?

«No, assolutamente. Me lo immagino, personalmente, come una specie di Bibbia, di cui si uniscono le parti. Come un progetto per la vita, che seguiamo e portiamo avanti fino a che moriamo, ma non come unico progetto». (Sorride)

Vedi Biennale, i film dell’America latina 1

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