Rappresentare una città: ci passo dentro, segno le vie, le case, le piazze; disegno tutto. Disegno tutto in scala; ripresa dall’alto, riporto gli ingombri di ogni edificio dalle costruzioni romane a casa di mio zio. Un lavoretto preciso. Guardo poi le linee e le forme; e mio zio non c’è. Casa sua sì ma zio, con zia, coi cugini e gli amici dei cugini e le amiche degli amici non ci sono. E riflettendoci questa mappa precisa assomiglia molto alla mappa precisa di un’altra città, dove non ci sono né zio, né i cugini e né gli amici dei cugini e dove forse parlano pure un’altra lingua. Che cosa c’è allora su quel foglio? Che cosa ho rappresentato?
«Consideriamo – dice il collettivo Post Disaster – le città non solo come posti ma ambienti reali dove avvengono cose; non contenitori vuoti riempiti di storie da cui attingere ma persone che quelle stesse storie hanno inventato, in quelle stesse piazze rappresentate sulle mappe. È importante che l’architettura possa superare il costruito, farsi effimera e arrivare e parlare anche di comunità di relazione, di luoghi».
Post Disaster è un collettivo formato da Gabriele Leo, Gabriella Mastrangelo, Grazia Mappa, Peppe Frisino nel 2018. La loro indagine cittadina, a partire dalla loro terra Taranto, studia l’unicità culturale delle strade, delle persone che le attraversano; un oggetto di ricerca concreto ma volatile, ed effimera è così la pratica che ne risulta: sui tetti di quelle città restituiscono alla comunità sotto forma di appuntamenti, talk, performance, concerti quello che la comunità gli ha dato nel tempo di ricerca. «Andare più su – confermano – per guardare giù, non per andare ancora più in alto: la strada, le persone che la vivono con le loro relazioni rimangono il punto. Quindi i tetti sì, ma per mettere a sistema quello che si è visto giù per le strade; non stiamo solo sui tetti, ci andiamo, e, questo è importante, ci saliamo per elaborare insieme: l’attraversamento della città è fondamentale».
Dopo la partecipazione al Padiglione Italia nell’ambito della Biennale di Architettura 2023 e una serie di residenze internazionali, sono stati chiamati quest’anno alla Biennale d’Arte di Malta curata da Sofia Baldi Pighi nella sezione Main artists dove hanno presentato Unfinished Barricade. A space for borderline hesitations.
«Ci hanno chiesto – raccontano – di lavorare su Forte Sant’Elmo: un forte aragonese che tutt’ora ospita un museo della guerra. Il progetto è un’occupazione temporanea di uno spazio monumentale volto a indagare il tema della memoria collettiva attraverso un’installazione spaziale, un programma di eventi e di performance che si pongano in relazione critica con il contesto fortemente caratterizzato dalla sua collezione. Un’occupazione temporanea, dicevamo, una sorta di Taz, Temporary Autonomous Zone: un’isola che liberiamo da un sistema caratterizzato dalla presenza della guerra nello spazio fisico. Attraverso dispositivi spaziali ci determiniamo uno spazio di autonomia, ci separiamo con una struttura di supporto, una barriera considerata incompleta fino a quando non sarà utilizzata dalle persone nello spazio; una bandiera con uno statement dell’artista locale Sam Vassallo, incentrato sui temi dell’occupazione, della colonizzazione e della guerra, centrali nel contesto maltese, segna la nostra effimera posizione nel forte».
Come si sviluppa il programma?
Il progetto si svolge in tre appuntamenti all’interno del public program. Il primo: They Gave Name To Our Ruin, una performance dell’artista maltese Vassallo con dei testi realizzati a partire da interviste con la comunità abitante dell’isola raccolte nella zona della Valletta; lì infatti troviamo i veri abitanti di Malta, e non i turisti, che sono molti, tanto da poter ipotizzare una nuova colonizzazione: quella turistica dell’isola. Il secondo appuntamento con Rivoluzione delle Seppie prende le forme di un’assemblea performativa, un misto fra cibo e conversazione critica. In chiusura con Adrian Camilleri, antropologo e musicista maltese, abbiamo realizzato un appuntamento che coinvolge la scena musicale di Malta; si potrà dormire la notte nel Forte e continuare a seguire le performance tenute tutte da artisti maltesi, dall’underground fino alle espressioni musicali più tradizionali dell’isola.
Fondati da poco, siete già stati chiamati alla Biennale di Venezia. Come è andata?
Esperienza intensa, siamo felici che i curatori abbiano pensato a noi come pratica da esibire in un contesto disciplinare ancora molto rigido: l’architettura. Quello che è stato interessante è stata la richiesta dei curatori di andare in continuità con la nostra pratica, di non snaturarla. Contesti come Taranto sono raccontati sempre in maniera stereotipata, e invece portare un punto di vista diverso, un glitch rispetto alla narrazione dominante è stata un’esperienza per noi importante.
Il tetto è la parte più alta di un edificio, la più vicina al cielo. L’edificio più alto è stata la torre di Babele, che ha provato ad essere la più vicina a Dio. Punto di osservazione e eterogeneità di risultati sembrano avvicinarvi al mito.
La decisione di utilizzare i tetti viene da una storia personale del collettivo: è lì che ci incontravamo, nella città vecchia, dopo i nostri vari viaggi all’esterno, disillusi sul futuro. Discutevamo dalla città, sullo stato della città; e i tetti in questo senso sono un osservatorio privilegiato. Perché, ci siamo chiesti, non allargare a un pubblico più ampio queste parole o le riflessioni di altri che condividevano il nostro pensiero? Abbiamo messo a sistema una pratica che già svolgevamo, una modalità privata che abbiamo solo aperto a più persone e ad altri formati. Fin da subito la continuità d’azione è stata una decisione volontaria e imprescindibile: in un contesto culturale come Taranto segnato da molti progetti mancanti di una visione a lungo termine, esserci, starci, schivare la puntualità è l’unico modo per dare forza e credibilità a un progetto. Essere presenti significa poi, anche, assumersi delle responsabilità nei confronti del territorio, confermare la volontà di studiarlo, decentralizzare il sapere, mischiare le scale: internazionale, nazionale, regionale, locale e underground.
I tetti sono quindi l’inizio ma anche l’arrivo di un percorso.
Sì: sui tetti mostriamo l’output, il momento nel quale l’indagine si rappresenta, si mostra tutto il lavoro precedente, spesso le performance si concludono sui tetti ma partono e si svolgono per strada. Il tetto è un punto di arrivo ma anche di partenza per altre pratiche: siamo anche una piattaforma oltre che essere noi stessi una pratica e ospitiamo altre professionalità che si mettono a sistema con noi e insieme creiamo queste tracce.
Tracce?
Sì, chiamiamo l’insieme degli appuntamenti sui tetti Ep. e ogni appuntamento traccia. I termini sono mutuati dal linguaggio musicale: Ep. sta per extended play; e così come ogni album contiene delle singole composizioni, noi chiamiamo traccia ogni appuntamento di quell’evento. Evento del resto è una parola che porta con sé la temporalità, la puntualità di un’azione che non vorremmo associare alla nostra pratica.
Prima avete citato Taz e underground, ora Ep. Avete molto in comune con la cultura rave e del resto effimera è la stessa musica.
Questa presenza musicale è forse legata al fatto che fin dall’inizio del collettivo ci hanno sempre accompagnato musicisti della scena underground tarantina; nei vari Ep. c’è sempre uno spazio lasciato al sonoro. Diciamo anche che in futuro vorremmo poi veramente realizzare un Ep fisico, una sorta di vinile che possa mettere insieme ciò che è accaduto in questi anni. Al momento abbiamo il nostro sito che raccoglie i vari Ep. realizzati con ritorni sonori e testuali. Più in là, oltre l’Ep. vero e proprio, stiamo pensando a una pubblicazione editoriale in grado casomai di rielaborare tutto attraverso una serie di interventi critici.
Post Disaster: i progetti futuri
Oltre a continuare la sua attività, il collettivo ha in programma la realizzazione di un vinile e una pubblicazione che raccolga gli Ep. realizzati e rielaborati anche grazie a testi critici. Post Disaster vorrebbe sempre di più: «Diventare un osservatorio sul Mediterraneo e costruire avamposti effimeri di discussione, ragionando, lavorando sul concetto di crisi intesa in un senso più ampio e globale; cercare di avvicinarsi a chi è simile a noi sotto molto aspetti e non guardare solo verso il Nord Europa».
La storia del collettivo
2018 – Viene fondato a Taranto il collettivo da Gabriele Leo, Gabriella Mastrangelo, Grazia Mappa e Peppe Frisino
2019 – Realizzazione a Taranto di EP 02 A New Ab-Normal
2021 – Esposizione curata da Giulia Floris al Lab 1 durante Art Verona del progetto Landing For Disaster
2023 – Partecipazione alla Biennale di Venezia nel Padiglione Italia Spaziale con il progetto Out of Ruins
2024 – Partecipazione alla Biennale di Malta nella sezione Main Artists
L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #131.