Nel segno del recupero: tre libri e l’editoria viva in Italia

Il mondo dell'editoria "indipendente" continua ad aprire varchi su territori in cui si mescolano immaginazione e riflessione sullo stato delle cose

«[…] il caso e il destino che, al mio sguardo, colorano il passato, sono, nello stesso tempo, presenti in maniera sensibile nel consueto disordine di questi libri». Una convinzione e un criterio – una tensione – a muovere la passione collezionistica di Walter Benjamin che aprendo le casse della sua biblioteca ci ricorda anche come non esista «biblioteca vivente che non custodisca un certo numero di creature libresche provenienti da territori di confine». Ed è proprio nello spazio di questa tensione, tra caso e destino, nelle pieghe più strette della storia editoriale, che a volte si possono trovare libri capaci ancora di aprire varchi su quei territori in cui si mescolano immaginazione e riflessione sullo stato delle cose, imprese romanzesche «a condizione che la parola “romanzesca” non la intendiate come “inventata”, “artificiale”, “diversa dalla vita”» (Kundera). Libri capaci di resistere al tempo, di anticiparlo, di conservare intatto un proprio stato di efficacia; e libri che d’improvviso ci piombano in testa e alimentano quel benjaminiano, essenziale, caos dei ricordi. Quando Wilcock scrisse, tra anni Sessanta e Settanta, sul “reato di scrivere” non risparmiò alcune case editrici, quelle che “scelgono i loro libri a vanvera”; quelle “serie” vengono scarsamente recensite e se possibile ignorate. Ma, per fortuna, i tempi cambiano.

Loro di Kay Dick, per esempio, è un libro pubblicato per la prima volta nel 1977 in Inghilterra, vittima, presto, di un oblio indotto da leggi di mercato e bigotteria, rinnovatosi per decenni a causa di una certa miopia editoriale che per fortuna, in Italia, viene interrotta da minimum fax che ha pubblicato la traduzione italiana nell’ottobre 2022. Un’edizione che presenta la prefazione di Carmen Maria Machado, grazie alla quale scopriamo che il caso fortuito dell’incontro, in un negozio dell’usato, di un agente letterario con una vecchia copia del libro ha riacceso i riflettori su quest’opera, uscita clamorosamente fuori dal mercato dopo soli due anni dalla sua pubblicazione. Ma quali sono i motivi di questo oblio condito da indifferenza? Kay Dick è stata una figura luminosa, prima donna a dirigere una casa editrice e “autrice queer radicale” di cinque romanzi. “Loro” è il quarto ed è un montaggio di dieci racconti che si sostengono grazie a un’ambientazione, la campagna inglese, descritta meravigliosamente, e da una serie di personaggi stretti nell’arte e nell’amore libero. “Loro” sono un’entità non meglio identificata, inquisitoria, crudele, schizofrenica, pericolosa che sorveglia, rincorre e punisce artisti, intellettuali, solitari e coltivatori della memoria attraverso rigidi protocolli disciplinari che prevedono la reclusione in apposite torri, l’espiazione del peccato della creatività per contrappasso: “i pittori impenitenti vengono accecati, i musicisti spudorati vengono resi sordi. A uno scultore vengono cavati gli occhi utilizzando le schegge di vetro delle sue opere”. In quelle torri si procede alla cancellazione dei ricordi – un po’ come nell’”Isola dei senza memoria” di Yoko Ogawa – perciò i personaggi di Dick lavorano a una resistenza silenziosa e segreta con lo scopo di “mantenere aperta la strada per l’immaginazione creativa”, contro una spietata società del controllo e della sorveglianza due anni dopo Foucault e tredici prima di Deleuze. “Loro”, come ha evidenziato Machado, è una distopia che conserva dei codici preziosi di lettura della realtà, che mostra come a ogni censura possono corrispondere sempre un sussulto e un’alternativa.

È un mondo alternativo, quello di Membrana, romanzo ambientato in un 2100 che vede l’umanità trasferitasi negli abissi sottomarini per sfuggire alla catastrofe ambientale avvenuta in superficie, in un’immaginaria, ancora distopica, prosecuzione tragica del mondo sommerso ballardiano. Chi Ta-Wei, accademico taiwanese e docente di letteratura all’Università di Taipei, lo ha pubblicato in patria nel 1995. Mai come in questo caso nelle date è possibile trovare le coordinate per leggere un romanzo che è riflesso orientale di una temperie culturale globale sintonizzata sulle frequenze di un rapporto nuovo tra umanità, tecnologia, corpo e identità. Infatti, è nello spazio di questo decennio, tra il 1985 e il 1995, che è possibile individuare alcuni momenti cruciali della riflessione su questi temi, provenienti da campi diversi ma continuamente interconnessi: il Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985, in Italia 1991); la mostra Post-Human a cura di Jeffrey Deitch del 1992; Il sex-appeal dell’inorganico di Mario Perniola (Einaudi 1994). Un’enfilade sintetica di un sentire nuovo al quale il romanzo di Chi Ta-Wei si aggancia con radicale originalità. Momo è una fuoriclasse della cura della persona, in particolare di quegli inestetismi della pelle contrastati da maschere e membrane. Una paladina della protezione e della bellezza profondamente chiusa nel suo ambiente (casa-lavoro), refrattaria alla mondanità nonostante un lavoro che in quella scala gerarchica la posiziona molto in alto. Un carattere introverso e solitario, segnato da un rapporto conflittuale con una madre, brillante dirigente d’azienda editoriale, colpevole di qualcosa da rivangare negli anfratti di memorie sempre più artificiali. L’atmosfera cyberpunk e l’intreccio narrativo si avvinghiano a tematiche oggi urgenti come l’ambiente (“Nel XX secolo ‘riciclare’ era una parola nuova e di tendenza. Nella desolazione del XXI, invece, era diventata l’unica strada rimasta”), il genere e l’identità, il rapporto uomo-macchine, in quella che è una storia di figurazioni, transizioni e trasformazioni tecnologiche, per usare il gergo di Rosi Braidotti (Madri, mostri e macchine, pubblicato nel 2021 ma i saggi risalgono alla metà degli anni Novanta!), con un finale spiazzante e commovente; un romanzo che grazie a add editore trova finalmente una collocazione editoriale italiana.

All’insegna della riscoperta, infine, Foucault in California si candida ad essere best-seller capace di intercettare e ipnotizzare trasversalmente. Simeon Wade è il narratore di questo “viaggio filosofico e lisergico”, pubblicato in Italia da Blackie Edizioni nel 2023, rimasto nascosto per decenni e dato alle stampe grazie alla caparbietà di una ricercatrice statunitense, Heather Dundas, autrice, a sua volta, della toccante introduzione nella quale si scopre la stramba vicenda di Wade, ex professore a Claremont che dopo varie peregrinazioni accademiche finisce per fare l’infermiere in un istituto psichiatrico. La storia è quella, nota, del trip nella Death Valley, di cui Wade è organizzatore col compagno pianista Michael. Ma il libro ripercorre, con studiata sapienza narrativa, i vari tempi della visita di Foucault negli Stati Uniti del 1975, dal primo incontro all’ardita proposta, dal viaggio all’esplorazione di gruppo al Bear Canyon, fino alle lezioni e ai dibattiti universitari e alla partenza finale. Un itinerario entusiasmante nel quale vengono ribadite, qualora ce ne fosse bisogno, alcune delle convinzioni, delle posizioni e delle preferenze del grande filosofo francese, ma vengono anche restituiti alcuni tratti umani ed emotivi che ne arricchiscono la figura. La predilezione per Magritte, Kandinsky e Klee, per Gramsci e Merlau-Ponty, per Fellini, Antonioni e Polanski, ma anche la dolcezza dei rapporti umani in contesti conviviali e la disponibilità a discutere i punti cardine del suo pensiero con una platea di appassionati studenti. Niente di nuovo, probabilmente, per chi conosce il personaggio e la sua storia, per chi proviene dal suo stesso ambito disciplinare. Tanto, invece, per chi da altre postazioni ne attraversa saltuariamente i riflessi potentissimi e accetta il rischio della scorciatoia che, come le dosi controllate del ’75, sfuma il confine tra illusione e realtà, vero e falso. 

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