Una mostra che rappresenta un tuffo in un passato che parla di una Città Eterna che pullulava di grandi artisti internazionali, dove Piazza del Popolo rappresentava il fulcro di un via vai di grandi interpreti della scena contemporanea. Un concentrato di questa realtà è raccontato dalla mostra La Scuola di piazza del Popolo. Pop o non Pop?, presentata dalla galleria Monogramma arte contemporanea, dal 28 maggio al 28 giugno, curata da Gabriele Simongini, con il coordinamento organizzativo di Giovanni Morabito e dell’Associazione med’eventi.
Una bella mostra che ha avuto il sostegno della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, presieduta dal Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, e realizzata con il contributo della Fondazione Cultura e Arte. E il motivo lo ha spiegato il presidente stesso, nell’opening che si è svolto giovedì scorso: «In quel periodo, quello degli anni Sessanta, ho avuto il piacere e la fortuna di frequentare gli artisti protagonisti oggi di questa mostra. Roma era una città bellissima, dove si valorizzava la cultura e si percepiva la voglia e il coraggio di sperimentare. Era un’Italia differente da quella attuale, un Paese in cui si investiva sulla cultura e sulle eccellenze italiane».

Gli artisti rappresentati, con opere degli anni Sessanta, sono Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi.
Come dice il titolo stesso dell’esposizione, costruita per exempla, è giusto tornare ad interrogarsi sul contributo innovativo portato da questi artisti al contesto internazionale, con una forte originalità che anticipa perfino alcuni esiti della Pop americana ma che ha un’identità talmente spiccata da non essere riducibile, se non col rischio di una pericolosa semplificazione, alla definizione schematica di Pop all’italiana. Il centro storico così denso di incontri ed eventi creativi, tanto da fare di Roma una capitale dell’arte internazionale, doveva molto a Cinecittà, al sogno del cinema che veniva da una periferia al centro del mondo. Se gli U.S.A. avevano Hollywood e la Pop Art noi avevamo, senza essere da meno, Cinecittà e la Scuola di piazza del Popolo.
«Mambor, Schifano, Rotella – ha detto ancora il presidente Emmanuele Emanuele – sono tutti artisti che mi ricordano il momento più bello della mia gioventù, quando arrivai arrivai a Roma nel ’62. Era un mondo unico, che vedeva in via Margutta un centro nevralgico. La sua specialità era data dal fatto di essere frequentata da questi personaggi, dei veri rivoluzionari, poco disponibili a costumarsi con il rituale del tempo. Erano antesignani nella considerazione della individualità prorompente. Ho avuto il privilegio di frequentarli nei miei momenti di libertà. Facevo parte di questo gruppo, li trovavo nei ristoranti, nei locali, una vita entusiasmante, dove ogni giorno era più bello del precedente. Dove la crisi postbellica vedeva nella creatività uno strumento per implementare la propria vitalità. Tale vitalità era la testimonianza di un’Italia che cresceva, tutto si vedeva in prospettiva di un futuro. Ho avuto la fortuna di vivere quell’epoca e il beneficio di quella vitalità esistenziale ha influito anche nella mia vita professionale e personale».

E quanto alle influenze americane, tema cardine della mostra? «Si configurava in quel periodo – spiega Emmanuele Emanuele – anche una occupazione culturale nel nostro paese con la presenza dei grandi artisti americani, il gruppo di Piazza del Popolo però non si è mai uniformato al consenso generale sull’influenza dell’arte americana, anzi erano i propositori della vitalità della loro opera, non hanno mai accettato la Pop art come punto di riferimento della loro creatività, e questa mostra lo spiega molto bene».
Come scrive Gabriele Simongini, ”un altro luogo comune che va sfatato è quello di una “Scuola di piazza del Popolo” felice e gioiosa sic et simpliciter. È invece spesso evidente una costante inquietudine che riflette anche la condizione ansiosa e il ruolo dell’artista nella nuova società dei consumi, l’artista che non può accettare di diventare passivamente un produttore seriale. E in più promana da molte opere una profonda vena malinconica che non assume mai le sembianze del sentimentalismo ma che anzi si configura sempre in modi netti, perentori, duri. Del resto, quegli anni furono pure anni di angosce, di disperazione e di morte”.
La mostra è visibile dal 28 maggio al 28 giugno (opening giovedì 27 maggio ore 18)
Resterà aperta con i seguenti orari:
tutti i giorni esclusi i festivi, dalle ore 10.00 alle ore 12.30 e dalle ore 16.00 alle ore 19.30.
Via Margutta, 102 – 00187 Roma – tel. +39 06 32650297 Fax +39 06 32655574
Info: www.monogramma.it
Fioroni, Liberty in geometri Lombardo, Studio di Gesti tipici, 1962 Mambor, Campionatura 1966 Tacchi, La mano nei capelli 1966