Fabio De Benedettis. (s)COMPOSIZIONI al NexumStp.

Roma

Fotografo romano, Fabio De Benedettis, classe ’69, si è diplomato a Londra in fotografia al Stanmore College of Art. All’inizio della sua carriera si è concentrato sul ritratto, la pubblicità e il reportage per approdare poi alla fotografia concettuale. Ha lavorato in oltre 30 paesi collaborando con molte ONG italiane e straniere, con la NATO, con l’ONU e con vari giornalisti italiani. La sua ricerca artistica, quindi, si è diretta al concettuale, nella volontà di veicolare un messaggio che provenga da proprie riflessioni incentrate sulle proprie esperienze e sulle proprie suggestioni. Il suo lavoro si sviluppa in serie. Di sé dice: “non mi soffermo a documentare la realtà ma a raffigurare la “mia” realtà, quello che vedo dentro di me e non fuori”.
La propensione dell’artista conduce verso la costruzione di un contesto originale dove muoversi e creare, dove inventare un percorso intimo verso la realizzazione di un lavoro che sia personale perché nato dal proprio bagaglio conoscitivo che prevede la propria particolare prospettiva. Il suo occhio si indirizza verso immagini che colgono un lato della vita che solo un approfondimento calato all’interno di se stessi può ottenere. È interessante che il carattere intuitivo sia unito al lavoro organizzato fin nei minimi dettagli. Nulla viene lasciato al caso ed allo stesso tempo tutto proviene da un’urgenza. Dalle sue serie si può capire come il lato concettuale venga prima dell’effetto visivo, come lo svilupparsi di un progetto dipenda dal pensiero retrostante che lo caratterizza. Ad esempio, in Daily circles l’attenzione è catturata da oggetti quotidiani che hanno il comun denominatore di poter essere circoscritti in un cerchio. Questo lavoro è nato nel tempo di ventiquattro ore e l’artista ha voluto creare uno storytelling collegando le varie immagini in una serie. Mentre Could have been è una riflessione su chi avrebbe potuto essere De Benedettis se non fosse stato un fotografo: gioca con i vestiti che dividono in due il suo corpo lasciando alla parte destra il compito di immaginare chi avrebbe potuto essere. A caratterizzare gli scatti anche la presenza della macchina fotografica che ha utilizzato per realizzarli. Sulla serie Grey romantic approfondisce: “raffigura quella categoria di persone, ancora poco conosciute, che vivono il sesso e i sentimenti in modo non tradizionale ed io, pensando a loro, le vedo come dei busti in plexiglass, quindi quasi invisibili.” Il sesso torna nella serie Blondes, dove un semplice dettaglio di una Barbie può portare un uomo all’eccitazione, senza che neanche lui sappia il perché. Un altro importante aspetto della sua fotografia è la ricerca spirituale, il suo calarsi nell’inconscio, il suo approfondire le ragioni della profondità interiore.

A questo proposito De Benedettis cita le parole di Anais Nin “Andare sulla luna non è così lontano. Il viaggio più lontano è quello all’interno di noi stessi”. La psicanalisi lo ha portato all’accettazione di sé e degli altri, ma la cosa più importante che gli ha insegnato è il non soffermarsi sulle cose materiali per inoltrarsi nel mondo attraversando l’interiorità. Una serie che approfondisce questo aspetto è ri – Costruzione in cui approccia a sé stesso con visioni della propria personalità e persona anche frazionate ed evocative. Di sé dice: “Oggi sento la necessità e il piacere di raffigurare tutto attraverso le mie immagini, di parlare di me usando la fotografia, è una sorta di terapia, un modo per superare le paure ed esternare ciò che sento. La spiritualità è diventata la base fondante della mia vita.” Per una gran curiosità verso tutto ciò che lo circonda e lo stimola trae ispirazione da diverse fonti. Ad esempio cita Shakespeare nella serie Life dove una riflessione sulla vita, dovuta ad una frase del grande letterato, prende la forma di una candela. Si ispira al Triadisches Ballet e alle tematiche espressioniste del Bauhaus in Architettura semovente, commenta così: “il corpo di una donna in realtà è una Barbie, come già successo nella serie Blondes. Ho preferito usare una bambola anziché un corpo femminile, ed ho usato il fuori fuoco per essere meno esplicito, per lasciare allo spettatore un pizzico di mistero che potrebbe e dovrebbe spingerlo ad usare l’immaginazione anziché essere un semplice fruitore dell’opera. Sono affascinato dal Bauhaus per il suo razionalismo e funzionalismo, per l’idea di unificare arte, artigianato e tecnologia.” Guarda al pittore ucraino ottocentesco Vladimir Lukič Borovikovskij in MERKAVAH e al pittore romano ottocentesco Ettore Roesler Franz in Omaggio a Ettore Roesler Franz. Per quanto riguarda la serie ispirata dal primo artista, De Benedettis realizza disegni degli evangelisti prendendo spunto da quelli di Borovikovskij e li iscrive in delle sfere di plexiglass provando ad immaginare cosa farebbe se ricevesse una commissione da parte di una chiesa per realizzare opere sugli evangelisti. L’Omaggio a Ettore Roesler Franz, invece, proviene da una fascinazione nata nella sua infanzia per gli acquerelli romani del pittore. Partendo dalle sue vedute Fabio è andato a ricercare i punti esatti dove Franz aveva posto il suo cavalletto, stando attento anche alle condizioni climatiche in cui era stata eseguita l’opera. Poi De Benedettis ha creato una sovrapposizione della fotografia contemporanea sull’acquerello cercando di fondere, con un gioco di rimandi, personaggi di ieri e di oggi per ottenere una sorta di “macchina del tempo.” In quest’ultimo progetto, come in altri, ad esempio Pareidolia, è stata utilizzata la post-produzione, ma De Bendettis dichiara: “Non amo la post-produzione, mi limito solo a bilanciare le immagini, a volte è necessaria per creare l’immagine finale.”

Attualmente è in corso la sua personale (s)COMPOSIZIONI al NexumStp di Roma con testo critico di Barbara Martusciello. In questa serie rappresenta la città di Roma attraverso dei simboli quotidiani che appartengono alla romanità e che spesso dimentichiamo o trascuriamo. De Benedettis affronta questo progetto così: “Il concetto è quello di scomporre l’oggetto in sei facce dall’alto, il frontale, il lato destro, il retro, il lato sinistro e la vista dal basso. La scomposizione mi porta ad indagare, ad andare oltre quello che solitamente vediamo come ad esempio del sampietrino siamo abituati a vedere solo la parte alta, quella che sta in superficie nelle strade, ma le altre parti non le conosciamo. È un’indagine dettata dalla curiosità, che nasce dall’introspezione, è un lavoro introspettivo.” L’invito dell’artista è ad indagare sé stessi come egli indaga gli oggetti che ha difronte. Ed ognuno può seguire la propria fantasia nel ricomporre le prospettive a suo piacimento inventando punti di vista e significati nuovi. Per la costruzione delle immagini Fabio ha utilizzato un fondo neutro, un bianco totale, agevolando così la concentrazione. La sua è stata una scelta dettata da una pulizia che desse rigore al lavoro ultimato, che lo rendesse integro e quasi tridimensionale andando verso l’astrazione.

Dalle parole di Barbara Martusciello: “La sua è una traduzione visiva bidimensionale di un oggetto tridimensionale – una metodologia non lontana dalla rappresentazione architettonica – e la volontà che sostiene questa pratica ricalca un po’ quella dei bambini, che disarticolano il giocattolo per vedere come funziona davvero. Fabio lo fa ma si allontana del tutto dal ludico; la sua è un avvicinamento il più possibile all’illusione del vero, un vero molto persistente – per citare Einstein –, tanto che le foto ripropongono tutto a grandezza naturale.” Infatti De Benedettis dichiara: “Non amo gli orpelli, i dettagli aggiunti, anzi la mia fotografia è quasi sempre minimale, il mio è un lavoro a “togliere” anziché ad “aggiungere”, per fare un esempio mi sento più vicino ad uno scultore anziché ad un pittore.” Si riscontrano ironia e autoironia come caratteristiche della personalità di De Benedettis, ma, dalle sue parole: “Ritengo che per vivere in profondità, soprattutto se si usa la psicanalisi e la spiritualità, debba necessariamente esserci leggerezza quindi l’ironia è l’altra faccia della medaglia. Ho imparato a non prendermi troppo sul serio, a scherzare su qualsiasi cosa, soprattutto su me stesso. Attraverso i miei lavori parlo di profondità ma poi nella quotidianità sono ironico, l’esatto contrario degli attori comici. Could have been è l’unico lavoro in cui c’è anche l’ironia, i miei lavori non sono allegri, non c’è la gioia, quest’ultima la vivo nel quotidiano ma uso l’arte per esprimere la serietà, la profondità, a volte anche i dolori.”

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