Il Premio Maxxi-Bulgari

Roma

Sono Giulia Cenci, Tomaso De Luca e Renato Leotta i tre finalisti della seconda edizione del Maxxi Bulgari Prize, il progetto mecenatistico ideato dal museo e dalla celebre maison di moda. I loro lavori, pensati, prodotti e realizzati appositamente per il premio, sono esposti al Maxxi dal 28 ottobre 2020 al 7 marzo 2021, in una mostra a cura di Giulia Ferracci che coinvolge lo spettatore sin dalla lobby e si sviluppa nella scenografica Galleria 5, al terzo piano. Entro la fine della mostra, la stessa giuria internazionale sceglierà il vincitore, la cui opera entrerà a far parte della Collezione del museo. La selezione è stata fatta da una giuria internazionale composta da Hou Hanru, Direttore Artistico del Maxxi; Bartolomeo Pietromarchi Direttore del Maxxi Arte; Manuel Borja-Villel, Direttore del Museo Reina Sofía, Madrid; Emma Lavigne, Presidente del Palais deTokyo, Parigi; Victoria Noorthoorn, Direttrice del Museo di Arte Moderna di Buenos Aires. 

LE OPERE
Giulia Cenci ha realizzato una grande installazione che si articola in quattro gruppi di sculture, quattro nuclei plastici sospesi nel vuoto che invadono lo spazio, impongono alla spettatore cambiamenti continui del punto di osservazione, proiettandolo in un mondo di forme ibride, fluide, in parte umane, in parte animali. Attraverso questa installazione monumentale l’artista mette in scena i cambiamenti, le tensioni tra uomo e natura, la macchina del capitalismo iperproduttivo e del consumismo sfrenato, i conflitti del nostro tempo e un futuro dell’umanità distopico. Già nel primo nucleo scultoreo, i soggetti sono due figure antropomorfe che sembrano sfidarsi. Il conflitto esplode nel secondo nucleo di calchi, lungo la balaustra, dove zampe di cavalli acefali sembrano lanciati nella mischia. La terza scena è una sorta di prigione, una griglia che scende fin quasi la hall e ingabbia piccole figure senza connotati, sorvegliate da una creatura mostruosa. Il percorso si chiude con un’immagine di calma apparente, una landa abbandonata dove una macchina zoomorfa incombe dall’alto, simile a un dirigibile. 

Tomaso De Luca ha realizzato, invece, l’installazione video e sonora su tre canali Week’s Notice, dove miniature di abitazioni, prese in prestito dal cinema, dalla storia dell’architettura e dalla vita privata dell’artista, volano, crollano, impazziscono e si inceppano, in un’ode al disfacimento dell’architettura che ricerca la bellezza nell’instabilità e fa del trauma un territorio di creazione. Il lavoro offre infatti un finale alternativo allo spietato fenomeno della gentrificazione che, tra gli anni ’80 e ’90, seguì alla crisi dell’Aids. Mentre nei quartieri delle grandi città la comunità omosessuale, in quei decenni la più colpita dall’epidemia, scompariva, il mercato vedeva in quella strage un’opportunità: mobili e beni personali venivano gettati per strada e gli appartamenti rimessi sul mercato per affittuari più sani e abbienti. Nel tentativo di riconquistare questo spazio perduto, l’artista trasforma l’architettura domestica in uno spazio disorientante, dove il senso di perdita e di precarietà diventano elementi generativi di una ricostruzione.  

Concludono il percorso Roma e Fiumi, progetto dedicato alla città di Renato Leotta: dodici film, girati in pellicola 16 mm, sono presentati su altrettanti schermi distribuiti nello spazio del museo come a evocare una passeggiata ideale tra le vestigia della città. I film sono stati girati tra le iconiche fontane della Barcaccia, Trevi, e Quattro Fiumi e all’area sacra di Largo di Torre Argentina: uno squarcio nell’asfalto, che mostra l’anatomia della città antica che giace sotto il manto stradale. Dalla balaustra che segna il perimetro dell’area, inaccessibile ai visitatori ma visibile solo dall’alto, ci si affaccia su uno spazio ritagliato dal flusso urbano frenetico che vi ruota intorno, essendo il largo uno snodo nevralgico del traffico cittadino, uno spazio governato da una temporalità diversa, fuori sincrono, e popolato esclusivamente da gatti. Con questa inusuale passeggiata tra le rovine, dove si muovono cauti e sinuosi i gatti che rivolgono al visitatore sguardi interlocutori, l’artista riflette sull’arte come mezzo per ripensare il rapporto tra uomo, natura e paesaggio antropizzato, riallacciando una relazione tra società e animalità (testo tratto dalla didscalia dell’opera in mostra scritta da Sara De Chiara).

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