Hypermaremma ormai è diventata una certezza del calendario estivo contemporaneo. Un luogo di sperimentazione, confronto e dialogo tra artisti di generazioni diverse, tendenze e linguaggi. Da quest’anno, complice la monumentale installazione Spazio Amato di Massimo Uberti, è diventata anche iconica. L’opera infatti grazie alla sua collocazione, dimensione, bellezza e pertinenza è riuscita a stabilire subito una grande empatia con il grande pubblico ed è diventata un simbolo del territorio, diventando inevitabilmente la protagonista di selfie e stories su Instagram dell’ #estate2020. Ne abbiamo parlato con gli organizzatori Carlo Pratis, Giorgio Galotti, Lorenzo Bassetti, Matteo d’Aloja e Giulia Puri Negri, per capirne sviluppi e prospettive.
Quest’anno le premesse per chi organizza festival ed eventi soprattutto di grossa portata non sono state delle migliori. Ma l’edizione di Hypermaremma 2020 c’è stata nonostante tutto. Com’è andata e soprattutto cosa è cambiato/mancato rispetto all’edizione 2019?
Carlo Pratis: «Quest’anno con Giorgio, Lorenzo e Matteo abbiamo dovuto ripensare interamente il nostro programma, rifondando da zero il concetto stesso della nostra proposta. Hypermaremma nasce come una rete di mostre e di eventi, e quindi come una rete di incontri e condivisioni ravvicinate. L’anno scorso abbiamo avuto inaugurazioni con diverse centinaia di persone, un’affluenza impensabile quest’anno, soprattutto nei contesti istituzionali con i quali ci siamo relazionati. Abbiamo capito insieme la necessità di una grande opera iconica, che potesse accompagnare tutto il periodo estivo, raccontando naturalmente il senso di quello che stiamo costruendo. Un’opera che potesse innescare una magica fruizione solitaria col paesaggio circostante, con la sua forza prescindere da quel momento di condivisione conviviale: il grande neon di Massimo Uberti, Spazio Amato. Una scritta intesa come un’evanescente didascalia del paesaggio».
Giorgio Galotti: «Nonostante la situazione che si era prospettata a marzo abbiamo continuato a lavorare nell’ottica di offrire un intervento unico destinato a un pubblico più ampio, che fosse anche solo di passaggio per quella porzione di territorio. Il risultato è stato quello di dar vita a un simbolo che potesse narrare il nostro affetto verso questa terra e continuare a immaginare un orizzonte diverso. Per rispondere alla domanda, rispetto al 2019 non è mancato quasi nulla, se non il forte ridimensionamento del programma».
Come è stata la risposta del pubblico e del territorio in un anno così particolare?
Lorenzo Bassetti: «Incredibile. La bassa Maremma è un territorio molto fertile per questo genere di eventi e il nostro sogno è, in prospettiva, quello di far vivere la manifestazione dodici mesi all’anno».
GG: «Eccezionale, neanche noi ci saremmo aspettati un flusso di persone così eterogeneo e costante per tutto il periodo. Ogni volta che ci è capitato di passare davanti a Spazio Amato ci siamo sempre trovati a condividere quel panorama ed emozione con persone che si erano date appuntamento per goderne. Il messaggio circolava autonomamente. È stato veramente unico».
Matteo d’Aloja: «Siamo molto felici di come abbia reagito il pubblico, soprattutto i locali: i maremmani hanno un’antica tradizione di conservazione del territorio e questo lavoro è stato in fondo un inchino a loro. Dobbiamo molto anche ad un’amministrazione pubblica entusiasta e al WWF che hanno abbracciato il progetto con generosità. Spazio Amato ha saputo dare uno slancio emotivo e di speranza come solo l’arte sa fare. Un messaggio divenuto subito iconico. Senza alcuna pianificazione o pubblicità è diventata davvero una delle opere d’arte contemporanea più visitata e fotografata d’Italia. Abbiamo stimato oltre 30.000 visitatori e non siamo in grado di stimare l’impatto social. Il dialogo tra l’opera e il territorio ha generato una bellezza rigenerativa che ha fatto tornare moltissimi visitatori più e più volte. Siamo snelli e veloci nelle decisioni: questo ci ha dato un vantaggio e una grande lezione per gli anni a venire».
Ci volete raccontare in breve cosa ha significato per voi la grande installazione di Massimo Uberti?
CP: «Il grande neon di Uberti coglie in pieno la missione di Hypermaremma: si presenta come l’emblema dell’opera d’arte in dialogo con il luogo che la ospita e il panorama circostante. Appare come una traccia semantica di pura luce che ridisegna e ridà significato allo scenario d’eccezione che la accoglie. Un’apparizione che, dal tramonto alla tarda notte, possa aggiungere una nota straniante all’immutabilità millenaria del paesaggio maremmano. Forse ci suggerisce la necessità di tutelarlo e custodirlo nel tempo».
Ancora una volta la rassegna interagisce profondamente con il territorio, coinvolgendone l’anima. Che tipo di network avete messo in piedi per questa installazione?
GG: «Stiamo lavorando molto bene con le istituzioni locali e i privati, che ci mettono a disposizione luoghi unici con puro spirito collaborativo. Hypermaremma è un progetto che, anno dopo anno, diventa di tutti. Noi in primis cerchiamo di portare avanti un lavoro durante l’anno che punta a alla valorizzazione del territorio e dell’avvicinamento all’arte. Hypermaremma è un progetto destinato a un grande pubblico. Questo lo rende fuori dal comune perché l’interazione che si instaura con il territorio non è imposta o veicolata, ma puramente naturale».
Il grande neon di Massimo Uberti è stato ospitato nell’eccezionale cornice delle Terre di Sacra, che tra le altre cose ospita l’Oasi WWF di Burano. Come è nato il rapporto con Hypermaremma e come avete vissuto questa incredibile ”didascalia” di luce che sembra essersi posata magicamente sulle vostre terre?
Giulia Puri Negri: «Come molte volte nella vita, le cose accadono per coincidenze e timing giusti. Ecco come è nato il rapporto con Hypermaremma. Il nostro amore per queste terre e questo spazio non poteva essere meglio rappresentato che da questo grande intervento installativo di Massimo Uberti».
Come pensate che si possa sviluppare ancora il progetto nelle prossime edizioni?
CP: «Passando più tempo sul territorio abbiamo capito la necessità di tentare di stravolgere i suoi tempi di fruizione. Il nostro obbiettivo per l’anno a venire sarà di portare delle proposte fuori stagione. Dopo il grande intervento di Uberti, visibile fino al 30 Settembre, ci impegneremo a far conoscere la meraviglia della Maremma anche al di fuori dei mesi estivi. Altro punto fondamentale sarà quello di superare i confini geografici, superando l’idea Capalbio-centrica e spingendoci a Sud verso Montalto di Castro, con il meraviglioso Parco di Vulci e a Nord verso il Monte Argentario: uno dei luoghi più magici della Maremma. Sogniamo un futuro verso le isole come il Giglio e l’Elba innanzi tutto».
Md’A: «Vorremmo crescere lentamente. Vorremmo lasciare ogni anno un segno tangibile che generi cultura e susciti interesse. Vorremmo fotografare il paesaggio, le sue persone. Evitare di strizzare l’occhio solo ai vacanzieri estivi, di cui facciamo evidentemente parte. Non abbiamo fame, ma siamo curiosi. Sogniamo di avvicinare l’arte alle prossime generazioni, fin dai bambini. Vorremmo generare libri, far dialogare arte contemporanea con la storia, realizzare un archivio. Abbiamo tanti sogni da seminare».
Ci potreste fare delle anticipazioni sull’edizione del prossimo anno? Già ci state lavorando?
LB: «Abbiamo un programma fantastico già pronto e speriamo di poterlo realizzare nella sua totalità. Ma è anche vero che bisognerà adattarsi alla situazione contingente e verificare cosa sarà possibile realizzare, nel rispetto delle regole dettate dal momento reale. Sicuramente punteremo anche su un coinvolgimento maggiore di artisti internazionali, non dimenticando ovviamente la storia del territorio e il suo paesaggio, che rimane il punto cardine su cui ruota tutto il progetto. A questo proposito pensavamo ad un grande omaggio ad un’artista che ha fatto della Maremma la sua casa e la sua cifra stilistica: Giovanni Sanjust di Teulada. Un altro nostro obbiettivo è quello di coinvolgere le aziende più illuminate del luogo: il pensiero va a ad esempio a tutte quelle cantine vinicole che hanno fatto del Morellino una delle grandi eccellenze del territorio».