Straperetana quest’anno non demorde. Non rinunciando del tutto all’ensemble goliardico, indossa il suo completo serale, corredato di mascherina, esprime sottovoce emozioni e perplessità partendo dall’evocativa espressione dello scrittore Giorgio Manganelli, Abruzzo ”grande produttore di silenzio”. Se pensiamo alla rappresentazione allegorica del Silenzio di Giotto o al dipinto del 1900 di Odillon Redon percepiamo un approccio riflessivo e meditativo, che smorza l’avventatezza di un agire senza un pensiero strutturato, ci lascia cullare nell’attesa del momento propizio per poi navigare sulla cresta dell’onda. Talenti emergenti e artisti affermati sostanziano con i loro interventi il saliscendi del borgo abruzzese di Pereto. Il percorso parte da Piazza Maccafani dove si trova la Galleria Monitor diretta da Paola Capata, coordinatrice dell’iniziativa insieme a Delfo Durante. Varcata la soglia, Lucia Cantò dipana l’installazione parietale Penso che arrivi al mio peso, una schiera di mani in grès e argilla rossa in un wallpaper a rilievo, gocce che traboccano e prendono forma, modellate in un mantra quotidiano, esseri simili ma non identici.
Helena Hladilova crea una maschera in alabastro della magnetica Medusa, occhi e bocca annientati da piccoli schermi in stagno, una superficie cieca e impenetrabile ostacola il flusso dell’aria e della luce. A condividere la stessa stanza troviamo due dipinti di Lorenzo Aceto, frutto di un viaggio in Namidia, carcasse animali, piante secche, pennellata arida e calore rosso magenta. Scendendo verso la cisterna l’opera di Francesco Barocco gioca sul confine tra superficie bidimensionale e scultura, grazie all’inserzione grafica di un volto tragicamente laocoontiano su un busto: l’effetto è spiazzante, quasi antiestetico, eppure intrigante.
Danilo Sciorilli mette in piedi un’operazione di marketing holliwoodiana, ideando brochure, locandine sparse a macchia d’olio e una sala cinematografica ad hoc per un film che esiste solo in potenza. È il desiderio di contare, metaforicamente reso dai 03’05” in loop, ad accendere la miccia, una corsa in salita verso un obiettivo che retrocede innanzi i nostri occhi. I disegni del dépilant in tiratura limitata – da aggiudicarsi a 250 visitatori – sono resi da un intreccio scrupoloso di grafite, con il gusto impeccabile alla Giuseppe Stampone. Sul website dell’artista meteore e titoli di testa da Guerre Stellari.
Nel percorso per approdare a Palazzo Iannucci si incontrano due installazioni che si contraddistinguono per l’efficacia dell’immaginario che investono. Una targa commemorativa di un evento insignificante, minuto ma proprio per questo potente: la liberazione di un ragno allevato a Bologna da Mattia Pajé, in un rito intimo lontano dalle telecamere e da sguardi indiscreti. Possiamo fantasticare sul viaggio rocambolesco della creatura a bordo del treno; solo un sentore fugace e la testimonianza dell’artista alludono all’accaduto se non solleviamo il coperchio. Il gatto di Schrodinger è una tigre in agguato nella nostra mente, un quesito, un atto di fiducia e di credito al racconto di un’esistenza non partecipata.
Eliano Serafini sospende una scala a pioli, un invito ad inerpicarci tra provviste di conserve e profumi evanescenti. Apriamo la dispensa del cielo, in cima alla tettoia barattoli di vetro conservano esuvie di cicale. Rimane solo la pelle, l’esoscheletro ancorato alla corteccia, la creatura rinnovata ha già spiccato il volo e il frinire si diffonde nell’aria, annunciando la trasparenza ilare del suono e l’impalpabilità della forma. A Palazzo Iannucci nonostante le interessanti inserzioni di Guido Guidi e Nunzio colpiscono le opere di alcune artiste donne. Le prime tre sono legate, a mio avviso, da una sottile patina di sensualità ovattata. Alice Pelusi in Brace sembra alludere ad un desiderio scoppiettante, languido e viscerale, una liminalità ”lolitica” che confonde acerbo e maturo.
Sabrina Mezzaqui con Eternità metabolizza un tramonto: il ghiaccio si scioglie celere e ineluttabile sotto lo sguardo inerme della Regina delle Nevi, un flashback sul film d’animazione sovietico del 1957. Il sentimento legato alla fallibilità e transitorietà della vita umana spegne il miraggio di un’esistenza atemporale.
Lula Broglio in Ho visto una donna talmente bella da farmi trasalire dona al fruitore un’atmosfera surreale, la coda del cane scuote l’acqua in un sussulto lieve, un corpo mutilato di naiade emerge da una placida piscina dorata mentre dischi di ninfee galleggianti e carnosi ventagli palmati trasportano in una dimensione zen tra giardino orientale, dune verdeggianti e arsura californiana.
Mitologia e frame del quotidiano: se Petra Feriancova in Antigone’s Eyes ci avvolge in un panorama di fotografie in bianco e nero, una costellazione di porzioni vegetali, animali, architetture e presenze umane, Daniela Comani riflette sul tempo, ne annuncia l’arresto (Apocalissi) prelevando l’ultima pagina della Coscienza di Zeno e va a marcare così la FINE del riuscito percorso espositivo a cura di Saverio Verini. Produttori di silenzio sospende e meraviglia, ponendo sotto i riflettori le piccole verità non dette e i rumori bianchi, interstiziali, dell’esistenza.