Vetere, l’homo acquaticus

Roma

Ormai lo conoscono tutti, Giovanni Vetere con le sue performance si è fatto spazio nell’attenzione del pubblico e con il suo linguaggio artistico raffinato e leggiadro lo ha sedotto e ipnotizzato. Come medium espressivo ha scelto l’acqua , uno dei più complessi, ma sembra muovercisi con una disinvoltura quasi naturale, spontanea. L’acqua torna sempre nei suoi lavori, quando ci si immerge o quando ”pesca” qualche creatura marina per una citazione, un riferimento, un titolo o un’idea. La sua è una volontà ambiziosa: suggerire una proiezione futura dell’uomo, quando, per dirla come Jacques Yves Cousteau, l’habitat degli umani diventerà l’Oceano. Fantascienza? Lo dirà la storia. Intanto l’affermazione di questo giovane artista è realtà. Tanto che Roma ha accolto la sua ultima performance, Il Cappello del Polpo, a Palazzo Massimo alle Terme, il Museo nazionale romano, che prima d’ora non aveva mai ospitato una performance di un giovane talento.

Raccontaci la tua performance, come l’hai concepita? «Il Cappello del Polpo è nato nel mio studio a Londra, avvolto nel mio mondo. Un mondo marino, post-umano, dove esistono solo colori, forme e suoni e non ci sono parole, né valori né certezze. Dove tutto è fluido, tutto cambia e nulla è prestabilito. Immerso in questa dimensione apollinea decido di accompagnare il mio momento con Philippe Glass, Einstein on the Beach. Attraverso la musica lo vedo, lo sento e lo vivo; il coro, le voci, le parole, la musica, i suoni, risvegliano in me sensazioni inspiegabili e incontrollabili. Perdo talmente il senso di spazio e tempo che l’equilibrio mi viene a mancare e d’un tratto non mi ricordo più chi sono, dove sono ne cosa devo fare. Einstein on the beach mi ha fatto perdere. Dopo aver ascoltato l’intero album sento un estremo bisogno di scappare, urlare e fuggire. Finalmente un immagine si annida nella mia mente ed è quella che state vedendo adesso, una sovrapposizione di colori, forme, suoni e movimenti inspiegabili, indistinguibili ed inclassificabili. Come d’altronde lo siamo noi, la nostra razza, la nostra specie e le nostre origini».  

La teatralità fa parte della tua dialettica. Come nasce questa attitudine? «Sono sempre stato attratto dal teatro. A Londra ogni settimana sono in cerca di nuovi e spettacoli sperimentali. Dal Barbican, al Sadler’s Well mi piace andare da solo per avere un’esperienza intima con lo spettacolo, per analizzarne la forma e le emozioni. Ciò che mi affascina del teatro è l’insieme di diversi elementi che vengono connessi tra loro creando un linguaggio indecifrabile, che esiste solo in quel determinato momento e che va vissuto finché dura. Per me la forza di una rappresentanza teatrale sta nel creare un’esperienza che lo spettatore non può trovare al di fuori di essa, che smuove le viscere e risvegli le anime, come il teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Quando mi siedo a teatro è uno dei momenti più belli, mi siedo e aspetto, aspetto di essere colpito e travolto da una forte onda che trascini il mio corpo in alto e lo scaraventi al suolo con tutta la sua imponente forza».  

Che tipo di reazione ti piace innescare nell’animo dell’osservatore? «Ci sono cose che non riesco a comunicare verbalmente, emozioni e sensazioni che provo durante la giornata e durante la mia vita. Ci sono pensieri ai quali non riesco a dar via d’uscita con l’inchiostro, immagini che si impossessano della mia quiete e momenti indecifrabili. Tutto ciò riesco a comunicarlo attraverso la combinazione di diversi elementi, dalla scultura alla performance. Insieme creano l’armonia giusta per dar vita a quello stesso caos e quella stessa sensazione che mi fa sentir alieno ed estraneo dalla realtà. Con la mia arte voglio creare un mondo sensuale ed alieno, che focalizzi l’importanza di ergersi con la natura e le creature marine, specialmente quelle tentacolari. Voglio creare le stesse reazioni che ho provato nel mio studio a Londra ascoltando Philippe Glass, quella sensazione di disequilibrio, quel momento di incertezza nella quale non capisci più niente, ne chi sei ne cosa vuoi». 

Sei stato il primo artista a portare una performance di questo tipo in un museo storico come il Museo romano. Come hai vissuto questa esperienza? «Da giovane romano è stato un grandissimo privilegio poter accedere liberamente al Palazzo Massimo alle Terme per una settimana e considerarlo come ”stage” di una mia nuova performance. Sento di essere cresciuto molto in quest’esperienza, non solo perché è stata la prima volta che mi sono ritrovato ad affrontare una produzione mussale ma anche perché è stata la prima volta che ho diretto un’opera teatro/danza nella quale ho dovuto coordinare molti elementi diversi tra loro e di conseguenza mettere d’accordo un team di artisti e tecnici estranei tra loro. Tra musica, danza, coreografia, scultura, costumi etc. ho dovuto trovare il modo più fluido per unirli e farli giocare insieme. Il Palazzo Massimo alle Terme è stato un luogo amico e nemico allo stesso tempo. Ci ha accolto nelle sue stanze e ci ha dato conforto ma allo stesso tempo ci ha fatto sentire ospiti non graditi. Sappiamo come funzionano le cose a Roma, i musei non sono ancora all’altezza di tenere testa all’indomabile creatività di giovani artisti pieni di energia e allo stesso tempo frustrati da un impotenza che non lascia spazio alla loro arte. Dunque ci siamo trovati tutti a dover affrontare grosse difficoltà e mancate risorse da parte del museo. Allo stesso tempo, la generosità, la maestosità e l’incredibile storia del palazzo è stato per noi un grembo materno dove poter sviluppare la nostra performance. Aldilà delle difficoltà tutto il team del museo era talmente curioso ma sopratutto confuso da ciò che stavamo facendo che si sono resi partecipi ognuno a modo suo. E’ stato molto emozionante vedere tante persone coinvolte spassionatamente al mio progetto e non scorderò mai l’ esperienza di poter creare una mia opera immerso nella storia antica, tra le voci degli antichi romani, i resti di una civiltà che trasportiamo dentro i nostri corpi e che tramandiamo generazione dopo generazione». 

L’arte visiva sta manifestando da tempo una certa propensione per la trasversalità, abbracciando anche nuove forme espressive. Sei d’accordo con questa affermazione? E se sì, secondo te a cosa è dovuta questa apertura? «Tra il teatro e la performance c’è una linea molto sottile, molte delle volte la linea è quasi inesistente. Ciò rende difficile la differenziazione delle discipline, cosa è danza? Cosa è teatro? Questa indecisione però è ciò che mi interessa, perché mi dà la possibilità di mettere in discussione tutto ciò che faccio e come lo faccio. Tutto è fluido, come l’acqua, come la nostra evoluzione, e relazione con il resto delle creature terrestri. Viviamo in una situazione precaria dove non ci sono valori prestabiliti e tutto deve dunque fluire. Così nell’arte, le discipline si scambiano, si influiscono, si scontrano, si immergono come elementi chimici e creano nuove reazioni. Sono consapevole di aver creato uno spettacolo molto teatrale ma la mia intenzione è quella di andare oltre il teatro e la danza, di poter sviluppare un linguaggio unico che vada oltre la classificazione. Il giorno dopo la mia performance sono stato nello studio del Maestro Luigi Ontani il quale mi ha parlato a lungo proprio di questo argomento, di come oggi le discipline non siano rispettate e così svalutate, che tutto sia così troppo fluido e dunque superficiale. Ma io non sono d’accordo, penso che le discipline debbano essere sottoposte a grossi quesiti e che ognuno debba appropriarsene per crearne la propria interpretazione».  

Quali progetti stai preparando in questo momento? «Sto preparando la mia prossima performance a Londra, alla galleria Lychee One nella bellissima East London. Dopo tanto tempo torno ad immergere il mio corpo in acqua. In questa performance esclusiva, un grande anemone fungerà da utero di una mia nuova gestazione».

Ti piacerebbe cimentarti con una contaminazione nuova? C’è qualche linguaggio che ti incuriosirebbe approfondire per una delle tue prossime performance? «Sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di eccitante e di sconvolgente. Qualcosa che mi faccia svegliare la mattina con un senso di incertezza e di dubbio, che mi dia l’adrenalina di dover scoprire una soluzione, di cercare qualcosa che non ho. Sicuramente dopo Il Cappello del Polpo mi concentrerò nella realizzazione di un uno spettacolo dove la danza, il teatro e la musica possano interagire fra loro. Vorrei studiare questi tre elementi per dedicarmi di più allo sviluppo di un mio linguaggio sensoriale, teatrale e performativo. Voglio dare sfogo a questa mia necessità di esplodere creativamente e di usare diversi elementi contemporaneamente. Proprio oggi pensavo di voler tornare a studiare la musica. Da piccolo suonavo il pianoforte ma poi per motivi banali ho smesso. Mi piacerebbe riprendere questa pratica prima che sia troppo tardi e che me ne penta. La musica sta giocando un ruolo troppo importante all’interno della mia pratica artistica e dunque sento il forte bisogno di studiarla per poterla domare sempre di più».