Andrea Lo Giudice

Roma

A pochi giorni dalla sua prima personale a Fondamenta, Andrea Lo Giudice racconta il suo progetto Primo Futuro. Una mostra molto particolare, perché caratterizzata dall’assenza di opere. (Opening il 12 settembre ore 19).

Come nasce l’idea di Primo Futuro? «Primo Futuro nasce dalla ricerca di creare un osmosi tra due processi paralleli, le intuizioni su cui riflettevo da tempo e il confronto con lo spazio espositivo; ho la necessità di trovare una modalità che garantisca un’atmosfera vitale alle mie opere».

Opere invisibili. Ci vuole una buona dose di follia. Quale pensi sia il modo più idoneo per descrivere la ricerca che ha portato a questa mostra? «L’insoddisfazione. Avevo la necessità di trovare un nuovo linguaggio per veicolare ciò che avevo dentro, non mi bastavano più le immagini ”fisiche”. Nell’ultimo periodo ho approfondito molto lo studio sull’origine dell’arte nelle società magiche (che al contrario di quanto si possa pensare, esistono realmente in alcuni luoghi del mondo attuale) . Questo processo conoscitivo ha creato i presupposti, finché una notte, in sogno, ho visto alcune opere prescindere la possibilità, perciò la realtà fisica che vivevo, e ho deciso di realizzarle».

In realtà dietro queste opere/non opere c’è un processo realizzativo molto lungo. Puoi raccontarcelo? «Si è vero, paradossalmente impiego più tempo a fare un’ opera invisibile che un disegno, uno stencil o un tatuaggio -i miei linguaggi usuali fino a poco tempo fa-. La possibilità di confrontarsi con il Tutto fa si che il processo ideativo sia molto lungo: ho bisogno di leggere, di approfondire, di lasciare che alcune idee diventino più luminose di altre. La carta sulla quale incido, realizzata in collaborazione con un artigiano di Fabriano, ha anch’essa un processo realizzativo impegnativo: per ogni foglio si impiega tempo, fatica e molta cura. Le incisioni invece le faccio io: per trascrivere le parole sulla carta utilizzo una metodologia simile a quegli esercizi che ci facevano fare da bambini quando punzecchiavamo un’immagine affinché si ricreasse nel foglio sottostante; successivamente levigo lettera per lettera. Le tempistiche sono lunghe e il lavoro è davvero alienante perciò ho la possibilità di ascoltare audiolibri che in qualche modo sono entrati a far parte dell’opera. Ad esempio mentre lavoravo a Primo Futuro ho ascoltato: Una vita violenta di P.Pasolini, Pinocchio di C. Collodi, Le notti bianche di F.Dostoevskij, Gli indifferenti di A.Moravia e alcuni racconti di I.Calvino».

La mostra è un’esperienza diversa. Che cosa deve aspettarsi il pubblico? E soprattutto, qual è il modo giusto per approcciarsi alla mostra? «Il pubblico si deve aspettare un’esperienza inusuale, al visitatore si richiede di compiere un gesto immaginifico come mai prima, o almeno mai così estremo. L’approccio deve essere libero rispetto all’educazione visiva che caratterizza la società contemporanea. Tendenzialmente siamo abituati ad appiattirci sulla moltitudine di immagini che compongono la nostra realtà quotidiana. Per usufruire al meglio dell’esperienza artistica, lo spettatore dovrebbe riuscire a ribaltare radicalmente l’atteggiamento che ci è imposto rispetto alla relazione con l’immagine in generale. Dovrebbe riuscire a riesumare quelle capacità oggi tendenzialmente sopite, come l’immaginazione, l’intelletto e la visionarietà. È importante “fare vuoto dentro” per lasciar emergere le immagini che ognuno di noi rievoca col proprio vissuto e con la propria empatia. Anche per questo abbiamo pensato che sarebbe stata ideale una condizione di isolamento per fruire delle opere…Ma su questo non dico di più».

Puoi spiegarci bene la scelta di inserire il tuo DNA, attraverso il tuo sangue, nell’impasto della carta? «Quando ho chiesto al mastro cartaio se potevo mettere qualche goccia del mio sangue all’interno del composto mi ha chiesto se fossi pazzo. Invece dopo avergli spiegato che confrontandomi con un amico chimico avevo scoperto che solo poco sangue permetteva al mio DNA di entrare a far parte di ogni opera, si è convinto che fosse un’idea accattivante e abbiamo realizzato la carta. Mi emoziona il pensiero che ci sia un’unione totale tra me e le mie opere, rompendo così la scissione effettiva tra me e loro. Oltre a questo aspetto un po’ romantico le opere sono facilmente ricopiabili non essendoci nessuna ricerca segnica o di ductus, quindi è anche un modo pratico per certificare scientificamente, in un futuro, che le opere sono degli originali».

Come ti relazioni al concetto di assenza? «L’assenza è il motore principe di tutta l’operazione artistica. La mancanza dell’immagine fisica mi consente di poter scegliere l’opera tra le infinite possibilità dell’impossibilità; l’arte si è sempre relazionata al presupposto di fattibilità: per esempio uno scultore deve rendere stabile la propria scultura, un performer può collaborare solo con persone vive o che accettino il ruolo assegnato dall’artista e così via, io grazie all’assenza dell’immagine posso tranquillamente prescindere questo limite, avendo così la possibilità di creare nuovi problemi. Non agendo mi sveglio la mattina avendo la facoltà di fare qualsiasi opera, la non presenza, concettualmente e oggettivamente è un gesto di libertà assoluta. L’invisibilità dell’opera per di più mi mette a confronto con le immagini mentali che a mio avviso hanno una forza intrinseca difficilmente paragonabile, non ci sarà immagine del mare più coinvolgente di quella all’interno di se stessi».

Sull’onda di questo progetto, stai già pensando a qualcosa che ti piacerebbe fare dopo? «A dire il vero si, ho delle idee ricorrenti per progetti futuri ma ho bisogno di tempo per svilupparle al meglio prima di poterne parlarne».

Appuntamento il 12 settembre alle 19.
Fondamenta gallery, via Arnaldo Fraccaroli, angolo via Guglielmo Stefani.

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