Il festival Drodesera si tiene da ormai quasi quarant’anni a Dro, minuscolo paese della provincia di Trento. È proprio dalla piazza di questo comune di neanche cinquemila abitanti che è partita l’avventura artistica di Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna, ideatori della manifestazione; era l’inizio degli anni Ottanta, e le graziose sedie acquistate allora per gli spettatori che assistevano agli spettacoli sono ancor oggi utilizzate per far accomodare il pubblico del festival, come racconta lo stesso Sommadossi. La direzione artistica e le sedute sembrano essere le uniche cose immutate di questa rassegna, che da decenni si dedica incessantemente all’esplorazione dei più sofisticati e radicali linguaggi artistici. Drodesera ha fatto dell’instabilità una specie di marchio: dal focus sulla musica e il teatro di strada degli esordi, il festival si è gradualmente spostato verso la danza, il teatro-danza, la performance, la contaminazione con le arti visive, la multimedialità, caratterizzandosi come una zona franca aperta a ogni tipo di ibridazione e sperimentazione.
Da questo approccio è derivata l’esigenza di una nuova sede e di un’ulteriore organizzazione. Così, dal 1999, è nato Centrale Fies Art work space, grazie alla conversione di una centrale idroelettrica di inizio Novecento in ”fabbrica d’arte”. Dal 2013 Live Works – quest’anno a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi, con la collaborazione di Daniel Blanga Gubbay, co-direttore artistico del Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles –, è una delle creature germogliate all’interno di Centrale Fies, cui spetta il compito di intercettare le proposte artistiche e performative che meno si prestano a una catalogazione ortodossa. Grazie a una open call internazionale, i curatori selezionano nove progetti di altrettanti artisti, coreografi, performer, collettivi, ricercatori, cui viene offerta l’opportunità di sviluppare la propria proposta nell’ambito di una residenza che si tiene a luglio nei magnifici spazi di Centrale Fies. Si viene così a formare per un paio di settimane una comunità temporanea e meticcia, con artisti provenienti da tutto il mondo. Senza particolari ansie da prestazione: il premio che al termine della residenza veniva attribuito a un solo artista ora viene equamente ripartito tra tutti i nove autori ospiti; non c’è un tema prestabilito, né un indirizzo particolare da parte dei curatori, il cui obiettivo è, secondo il pensiero di Simone Frangi, quello di creare le condizioni per consentire ai performer di allargare e approfondire le proprie ricerche, senza alcun obbligo di inseguire un concetto – spesso abusato – come quello di ”innovazione”. Anche sul ruolo del pubblico le idee sono abbastanza chiare: Live Works non punta a grandi numeri e le proposte presentate dagli artisti rimangono intatte, senza essere influenzate dalla necessità di venire incontro a un non meglio precisato gusto medio.
La settima edizione di Live Works, andata in scena dal 19 al 21 luglio, ha visto la presenza di performer da Europa, Medioriente, Africa, perlopiù giovanissimi. Un programma fatto di continui cambi di scena (le performance erano disseminate in diversi spazi dell’affascinante centrale idroelettrica), di proposte spesso brevi (in genere la durata non superava i trenta minuti) e ancora fisiologicamente in uno stato embrionale. Difficile individuare un elemento unico capace di accomunare i lavori presentati, ma si possono tuttavia isolare alcune riflessioni condivise dagli artisti.
La palestinese Dina Mimi parte da una storia minore, quella di Yusuf al-Sudani, un uomo di Ramallah che trascorse buona parte della propria esistenza compiendo movimenti circolari nello spazio pubblico, in una semi-performance folle e ossessionata che durò fino alla morte, avvenuta nel 2016; tra racconto orale, proiezioni e semplici gesti performativi, Mimi trova corrispondenze poetiche e politiche tra la vita di al-Sudani e più ampie vicende storiche o legate alla capacità di muoversi e organizzarsi degli animali. Anche Rehema Chachage mette in atto un’azione rituale e densa di riferimenti simbolici, partendo da pratiche del suo luogo d’origine, la Tanzania, e facendo così rivivere la propria bisnonna attraverso gesti scanditi, odori e immagini d’altri tempi – legati al passato coloniale del paese.
Ceylan Öztrük gioca invece sugli stereotipi che accompagnano la danza del ventre: riflettendo sul rapporto tra orientalismo ed eteronormatività, la proposta dell’artista si colloca confine tra una sessione di danza e una lecture performance, generando la contro-narrazione di una pratica conosciuta. In maniera concettualmente analoga, ma formalmente diversa, Astrit Ismaili e Magdalena Mitterhofer propongono un racconto alternativo su Cicciolina, sulla sua attività musicale e su quella di attivista: le canzoni della celebre pornostar e politica sono riprese e reinterpretate da Ismaili e Mitterhofer, per un omaggio destrutturato – e in parte ironico – che pone l’accento sulle politiche del corpo, la censura e la libertà d’espressione.
Spiccano per il carattere fortemente transmediale le performance di due coppie, quella formata da Nana Biluš Abaffy e Parvin Saljoughi e da Cristina Kristal Rizzo e Charlie Laban Trier. Nel primo caso l’utilizzo pervasivo sulla scena di telecamere, le cui immagini sono proiettate in presa diretta, crea un raddoppiamento straniante che amplifica e drammatizza i dialoghi e i movimenti delle due performer; Rizzo e Laban Trier si muovono in una semi-oscurità, rotta dalle luci provenienti anche in questo caso da monitor e altri dispositivi tecnologici, creando un effetto di algida tensione che accompagna l’interazione tra i due corpi.
La resistenza fisica e il rapporto tra coppie di performer sembrano in qualche modo legare le proposte di Kat Válastur e Katerina Andreou. Válastur presenta due danzatori in scena, alle prese con uno stato alternato di esaltazione e depressione, che si traduce in continui movimenti di ascesa e caduta, probabilmente metafora di una condizione di instabilità fisico-mentale che contraddistingue la vita contemporanea. Quella di Andreou è invece una performance articolata, dove coesistono mimica facciale, danza acrobatica e club culture: in questa esplorazione multiforme Andreou è accompagnata da un’altra danzatrice, che ne diventa una specie di alter-ego.
Difficile da catalogare, ma non per questo meno degna di nota, è l’azione di Ndayé Kouagou, incentrata su un paradossale dialogo – sia fisico che parlato – con il pubblico, in cui Kouagou sembra manifestare i conflitti interiori alla base del processo creativo e il senso di indecisione quasi paralizzante posto dalle infinite possibilità dell’espressione artistica.
Oltre agli artisti in residenza, il programma di Live Works ha visto anche la partecipazione di cinque guest performers, che hanno presentato proposte più strutturate e in grado di dare una marcia in più alla rassegna. Si tratta di nomi apprezzati a livello internazionale, le cui pratiche si pongono sempre al confine tra azione dal vivo, arti visive, teatro, danza, racconto: Invernomuto, con la loro entusiasmante enciclopedia di musiche e sonorità del Mediterraneo contemporaneo; Juli Apponen, con una lecture performance carismatica, dolente e a tratti grottesca, nella quale affronta la propria transessualità; Marie-Caroline Hominal & François Chaignaud, con la loro ipnotica e immaginifica performance di hula hoop, eseguita completamente nudi; il video denso di contenuti visivi e ”politici” di The Otolith Group; i vocalizzi distorti e animaleschi di Sofia Jernberg.
Dopo i tre giorni di Live Works, l’immagine più forte che rimane è quella del suo contenitore, Centrale Fies, una struttura fortificata, austera e apparentemente impenetrabile, eppure aperta all’arte, alla contaminazione, all’incontro, alla libertà di sperimentare. Chissà quanti saranno inciampati in questa metafora, attraversando il ponticello che conduce alla centrale idroelettrica; difficile tuttavia non rimanere colpiti da questa visione, oggi più che mai altamente simbolica, urgente e necessaria.