Alla Triennale, Broken Nature

Broken Nature è una mostra che parla e fa viaggiare, già dal titolo. Abbiamo infranto la Natura. E adesso? Sono tante le parole che risuonano in testa: antropocene, tecnosfera, sostenibilità, etc. Seppur con qualche necessario taglio, vi riportiamo il racconto di Rosa Ciacci che ha visitato la mostra e che – come ci ha spiegato – proverà a raccontarci qualcosa, davvero qualcosa, perché Broken Nature è una collettiva ricca di autori – di storia e di storie – che sarebbe impossibile argomentare in poche righe. Visitarla è un’esperienza – specifica – che va vissuta anima e corpo.

Broken Nature, partiamo dal titolo: viviamo nell’epoca dei cambiamenti climatici, in realtà in atto già da diverso tempo, e non possiamo ignorare che la situazione attuale è una situazione di urgenza. Sì, urgenza è la parola più giusta da usare quando parliamo di clima. Il clima è cambiato e ce ne accorgiamo facilmente, basta considerare i bruschi cambi di temperature che stiamo vivendo in questi ultimi anni, con inverni rigidi ed estati senza respiro. E urgenza è una parola adatta, dicevo, perché non ha bisogno di aggiunte: è chiara. E dovrebbe farci capire che dobbiamo intervenire sia in piccolo, con comportamenti più etici nei confronti dell’ambiente, comprando di meno e comprando bene, sia attraverso protocolli globali che devono necessariamente aggiornarsi (ma questa è un’altra storia…).
Che dire? Benvenuti nell’Antropocene – per citare il titolo di un libro del chimico Paul Crutzen uscito nel 2000 che riprende in realtà un termine ”inventato” negli anni ‘80 dal biologo Eugene Filmor Stoermer l’era attuale in cui viviamo: la nostra epoca geologica e artificiale. Perché l’antropocene l’abbiamo creato noi. Abbiamo creato noi un’epoca che oggi è infatti rappresentativa di tutti i nostri comportamenti sulla Terra da quando esistiamo. Abbiamo fatto un po’ come abbiamo voluto, abbiamo prodotto troppo, comprato, buttato, riprodotto, ricomprato e buttato ancora. E adesso ereditiamo tutte le cause che hanno contribuito – e contribuiscono – a tutte quelle modifiche che, negli anni, hanno danneggiato l’ambiente e che, accumulandosi, ci hanno manifestato in diversi modi – dai disastri idrogeologici, alle temperature ormai senza controllo, due indicatori tra i più evidenti su scala mondiale – che abbiamo fatto male. E ora non possiamo che combattere per arginare il disastro, in quella che è l’unica lotta per cui è inderogabile eliminare le differenze e rimanere uniti Così, ad un certo punto, arriva l’arte, come sempre, con la sua magia.
Broken Nature è anche una mostra magica: al di là delle tantissime dimostrazioni scientifiche, è affascinante perché attraverso alcuni lavori, con visioni di paesaggi sensazionali, ci incanta ed estrania. Fossimo stati più ”sapiens”, forse oggi avremmo una Terra più sana, ma non è andata così. Il capitalismo e l’industrializzazione, fino a poco tempo fa, erano finalizzati a livello globale unicamente verso un’economia iperproduttiva, spinti da quella che l’uomo credeva fosse la strada giusta da seguire. Per fortuna, già con il pensiero ecocritico degli anni ‘70 -‘80, questa direzione ora pare stia cambiando. Pare. Stiamo sviluppando una nuova consapevolezza. Il senso comune sta facendo passi da gigante. Ci influenziamo a vicenda, anche quando non sappiamo di farlo. Il futuro è adesso e dobbiamo riconsiderare assolutamente l’idea di progresso. Nuove colture, nuovi modi per allevare gli animali, se pensiamo alla Terra. Ma dobbiamo trovare nuovi modi per tutto. E, la prima stanza della mostra – che mi attrae molto – ci fa vedere un paio di opere che illustrano cosa abbiamo combinato fino ad ora: il progetto della NASA, Images of Change (2014-2017), sia attraverso immagini, sia attraverso indici-rivelatori, ci dimostra come i nostri comportamenti impattano e modificano anche ciò che, a prima vista, ci sembra apparentemente rimanere naturale.

Rimango colpita dai tanti dati messi su una parete enorme e provo a decifrarli seguendo la legenda, ma poco dopo mi distraggo per le opere della stanza successiva – alcuni fossili in delle teche – e mi avvicino. Sono dei fossili un po’ strani, fossili del futuro o dal futuro: è Plastiglomerate del 2013 di Kelly Jazvac, con Patricia Corcoran (geologa) e Charles Moore (ocenografo), dei nuovi elementi metanaturali. Degli oggetti che ci raccontano, purtroppo, una storia molto semplice e molto triste. Plastigomerate ci fa vedere quello che viene trovato ogni anno a Kamilo Beach (Isole Hawaii): come si trasformano e arrivano fino a lì dei rifiuti portati dal vento, provenienti da chissà dove. Quando dico rifiuti, intendo davvero qualsiasi cosa: reti da pesca, spazzolini, accendini. Perché la maggior parte di questi elementi brucia in roghi accidentali, probabilmente nelle vicinanze, creando – una volta ammassati tra di loro –  quello che gli autori chiamano ”plastigomerate”, appunto. Un’opera che denuncia senza mezzi termini l’uomo per il suo atteggiamento irresponsabile negli anni nei confronti del pianeta. Quindi sì, per quanto possano sembrare fossili, in verità, inglobano al loro interno pezzi di plastica e chissà cos’altro, elementi che – al contrario di molte specie naturali – esisteranno senza dubbio a lungo. Ma l’evoluzione contemporanea è fatta di tanto altro e si mostra in diverse forme.
Think Evolution #1: Kiku-ichi (Ammonite) di Aki Inomata racconta di come, nel corso del tempo, il polpo abbia perso il suo guscio per scappare dai predatori e di come alcuni ne abbiano cercati degli altri: da altri gusci a noci di cocco. Il guscio di Inomata, per esempio, è un guscio ricostruito in 3D in ammonite che – secondo la letteratura scientifica – è considerato antenato sia dei polpi, sia dei calamari, estinguendosi, poi, contemporaneamente ai dinosauri.

Ho dietro di me Plastigomerate, e davanti Think Evolution #1: Kiku-ichi (Ammonite): un video in cui vedo l’incontro tra il polpo e l’ammonite, collocati entrambi dall’artista in un acquario. Cosa vedo?Un incontro ancestrale tra quello che è stato e quello che esiste adesso. Un artificio. Cambio stanza, e la luce diminuisce: entro in una dimensione diversa, tutto un corridoio di progetti. ALMA Music Box: Melody of a Dying Star del 2014 è uno tra questi, pensato da un gruppo di ricerca con Masashi Kawamura di Whatever, PARTY NY, Qosmos, Epiphany Works e NOAJ. L’ALMA (Atacama Large Millimeter Array), nel deserto del Cile, è tra i maggiori osservatori astronomici del mondo e, in particolare, studia le galassie e le attività delle stelle più lontane. Come suggerisce il titolo, l’opera ha tradotto in suono, l’ultimo periodo di vita di R Sculptoris, una gigante rossa a 1.500 anni-luce da noi: 70 brani con frequenze radio diverse. Un requiem in più atti. Una serie di suoni meravigliosi.

ALMA Music Box: Melody of a Dying Star è un’opera così affascinante che mi fa quasi dimenticare che racconta di qualcosa che svanisce per sempre. Con il tempo stanno scomparendo molte specie, molte forme in natura, alcune per non ritornare più se non in forme sublimate. Così, in Resurrecting the Sublime, Christina Agapakis, Alexandra Daisy Ginsberg, Sissel Tolaas (con la collaborazione di due gruppi di ricerca americani) “ricostruiscono” proprio per coloro che non vedranno mai le specie estinte: un’esperienza straordinaria che dà la possibilità di sentire ancora il profumo di un fiore ormai estinto grazie a innovative pratiche d’ingegneria. In Resurrecting the Sublime, sublime e immaginazione convivono in un’opera-video che va in loop, installata con un diffusore che ha anche un sensore di movimento. Ed è tutto insieme: fragranza e immagini. Tutto in una riproduzione. Tutto una riproduzione. Un po’ romantica, un po’ melanconica.
Broken Nature, lontana da essere una mostra per addetti ai lavori, è molto più vicina alla vita di tutti i giorni di quanto non possiamo immaginare, proprio perché ci mette davanti l’impatto che il progresso ha sviluppato sulla Terra negli anni. Ma, ognuno di noi può rimediare, può correggere, può essere –  come sosteneva Richard Buckminster Fuller – un ”trim-tab”: come nelle navi, anche noi possiamo diventare quel correttore che direziona in un modo, piuttosto che in un altro, il controllo durante la navigazione. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che da soli, con le nostre buone pratiche, non faremo granché fin quando non cambieranno i governi e le procedure in materia da parte delle pochissime aziende che comandano il mondo. Possiamo seminare fiori per fare del bene, come in Nanohana Heels del 2012 di Sputniko!. L’opera è a fianco alla precedente ma è oltre una tenda semitrasparente (ma scura) che mi fa accedere in uno spazio circolare, come sacrale. Un’installazione-video in cui vedo le gambe di una donna che camminano su un campo di fiori gialli, la colza, con delle scarpe di legno dal tacco molto alto. L’immagine mi piace e mi fermo a leggere per capirci di più. Le scarpe sono di Masaya Kushino, e non sono poi scarpe normali: hanno tacchi meccanici che seminano ”a ogni passo” (in giapponese, ”nanohana”) e il campo è quello di Fukushima Daiichi. Il progetto è ispirato dalle ricerche di alcuni scienziati bielorussi sulla colza, una pianta in grado di catturare le sostanze radioattive che, prima con Chernobyl, nel 1986, e dopo con Fukushima, nel 2011, sono state devastanti sia per queste aree, sia per i loro abitanti. Sì, Nanohana Heels è un buon ”trim-tab”. Esco dalla tenda e mi ritrovo davanti a Birdsong, un’opera di Sigil, un gruppo di artisti siriani e libanesi nato nel 2014, con Aamer Ibrahim e Emad Madah: una poesia che tocca corde dell’anima diverse rispetto a quelle degli altri lavori. Qui il design produce nuovi scenari, immaginari fatti di spazi e persone che abitano situazioni mai viste, e lo fa realizzando qualcosa di molto comune in Siria: uno spaventapasseri.

Una sorta di totem, rivisto in una nuova chiave. Attraverso diverse metafore, legate alla tradizione letteraria siriana, l’opera racconta dell’ ”uccello”” come della figura che esprime insieme sia legami duraturi nel tempo, sia rimandi a vicende politiche attuali. Soprattutto in questi ultimi anni, la rivoluzione siriana ha agito per contrastare tutte le persone che, per vari motivi, sono vittime di violenza, sia che vivano ancora nella stessa Siria, sia che siano intanto divenuti rifugiati all’estero. E Birdsong lo fa usando l’arte in maniera molto profonda: il canto degli uccelli per rappresentare una presenza in uno spazio. Spazio, uomini, produzioni, culture, tradizioni e Terra. Terra, sì perché l’agricoltura costituisce una delle economie forti dell’area. Il Jawlan, in particolare, è un altopiano vulcanico – seppur non particolarmente accattivante alla vista – molto fertile, al centro di diverse guerre – quella dei ”Sei Giorni” in particolare –  e di occupazioni che hanno costretto le popolazioni locali ad andare via. Durante questi episodi, l’esercito israeliano ha infatti distrutto centinaia di villaggi e fattorie, imponendo leggi e costumi propri su un popolo ricco di diversità culturale. Così, molte persone hanno perso la casa e la loro terra, molte sono divenute apolidi. Inoltre, alcuni resistono e sopravvivono, esprimendo ancora la loro dedizione per l’agricoltura coltivando mele. E vi racconto di tutto questo perché lo spaventapasseri, vestito dai Sigil come se fosse una specie di protettore, vive su queste terre per sorvegliare i raccolti (la loro ricchezza), tenendoli lontani dagli uccelli che potrebbero rovinarli (anche se, a dire il vero, in molti appezzamenti, gli spaventapasseri sono stati già sostituiti con mezzi, diciamo, più all’avanguardia!). Birdsong è un omaggio ai pochi campi rimasti autentici. L’opera è una poesia alla vecchia maniera, ci porta un po’ indietro nel tempo. Perché se in arabo lo spaventapasseri si chiama fazza che significa ”che mette molta paura”, la radice della stessa parola, faza‘a può voler dire anche  “alleviare, consolare o cercare rifugio” ed è per questo che è una figura ambivalente, totemica, assoluta e iconica sia di una letteratura, sia di un pensiero. Di uno stile di vita. Un limite tra l’uomo e la natura, più per esteso. Birdsong è davvero un’opera magnetica. Ci porta fuori da quelle stanze, sui campi, e ci fa vedere le lotte e il coraggio delle popolazioni resistenti. Un’opera, la mia preferita di tutta la mostra, che mi ha fatto nascere tante domande, e lo fa tuttora. Vado avanti ed entro in un’altra dimensione.
In tutte le opere di Broken Nature, con inclinazioni diverse, il design è ”utilizzato” per raccontare e/o risolvere problematiche differenti. E arrivo in una sezione della collettiva che mostra proprio come riesca ad inserirsi all’interno di diverse culture per cui il cambiamento climatico sta comportando notevoli disagi; uno spaccato molto interessante. Perché è qui che vedo la vita e l’arte insieme. Così, mi avvicino alle opere in fretta perché le riconosco e mi incuriosiscono ancora di più delle altre: quasi tutti oggetti comuni. Da diversi anni, Regno Unito, Giappone e Africa, stanno aprendo sempre di più le porte a progetti utili e belli. Fixperts è uno tra questi: un programma educativo dello scrittore e curatore Daniel Charny e di Dee Halligan, fondato in Inghilterra nel 2012, rivolto a chi vuole imparare a progettare qualcosa per la vita di tutti i giorni per categorie specifiche di persone. Un vero e proprio hub culturale in cui nascono, ogni anno, diverse proposte che vengono anche documentate in cortometraggi per essere diffuse. Si tratta, ad esempio, di nuovi strumenti che consentono di leggere i giornali a chi è colpito da paralisi, di macchine speciali per chi è costretto a trasportare enormi carichi, o di altri utensili per persone con artrosi che hanno molta difficoltà a compiere gesti semplici quando sono da sole, come abbottonarsi una camicia. Tra le mille foto che faccio quel giorno, mi fermo un attimo davanti Hippo Roller, uno strumento inventato da due ingegneri africani (Pettie Petzer e Johan Jonker) nel 1991. Un’invenzione che aiuta le popolazioni di un villaggio rurale in Sudafrica a recuperare, senza grossi sforzi, dell’acqua. Una specie di carriola da spingere composta da un bussolotto da riempire. Utilizzare Hippo Roller è indubbiamente molto più pratico e comodo piuttosto che tenere qualcosa pieno d’acqua in testa per 6 ore, come erano costretti a fare gli abitanti del villaggio prima! Perché quello dell’acqua è un problema attualissimo ed enorme: più di 2,1 miliardi di persone non ne hanno accesso diretto e devono percorrere diversi chilometri per recuperarla. E l’acqua, lo sappiamo, è tutto: siamo fatti d’acqua. Questa sezione della mostra è ricca di progetti che, oltre a farci vedere opere di design, ci fanno conoscere allo stesso tempo culture, alcune addirittura poco note (altre, credo, sconosciute a molti) e con grossi problemi, di cui altrimenti probabilmente non avremmo mai saputo nulla. Tutti noi siamo all’interno di un sistema di comunicazione che fa arrivare determinate notizie in un determinato modo, soprattutto a livello internazionale: così, anche per questo, con il tempo maturiamo pensieri in realtà distorti su quello che c’è nel mondo, su quello che accade. Perché è tutto collegato, è tutto connesso. Movimenti, migrazioni, culture, nuovi costumi, coscienze. I cambiamenti climatici, il pensiero. Il bene e il male. L’amore e l’odio. Ma, come scriveva Nelson Mandela in Lungo cammino verso la libertà: 

«Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio»

Il brano è citato nel catalogo della mostra per introdurre Totems, un’opera di Neri Oxmane e The Mediated Matter Group (fondato nel 2010 presso il MIT): un’opera che ci racconta della razza in una collettiva che racconta di come il clima sia cambiato a causa in gran parte nostra. E vi parlo di Totems per rimarcare come tutto l’esistente sia all’interno di una stessa casa, poiché spesso ce ne dimentichiamo.  La melanina, ad esempio, che è la protagonista di questo lavoro, è una sostanza conosciuta soprattutto perché in grado di differenziare il colore della nostra pelle. In realtà è molto di più. Negli anni abbiamo costruito modelli tutti nostri e per niente semplici. Li abbiamo vissuti e reinventati più volte, fino ad arrivare a ricreare addirittura la melanina! La melanina ci colora in un modo piuttosto che in un altro e, come sostanza, è antichissima; già esisteva nel Mesozoico, come hanno confermato delle tracce all’interno di alcuni fossili e, oggi, rappresenta uno tra i composti in natura più resistenti di sempre. Noi la conosciamo soprattutto perché ci protegge dalle radiazioni, quando invece ha svolto un ruolo primario per la sopravvivenza dell’uomo sulla terra nelle varie ere: accumula energia ed è molto importante anche per la crescita cellulare, contribuisce alla regolazione termica e attenua lo stress. Ne abbiamo ovunque, nei capelli e negli occhi, ed è presente anche in molti animali. Tuttavia, per via della sua eccezionale resistenza, la melanina ha avuto, ed ha, un certo impatto sull’ambiente: pertanto, la sua è una presenza da avere sotto controllo sia da un punto di vista biologico sia da un punto di vista sociale. E Totems ci vuole far avvicinare proprio a questi due aspetti: attraverso una sostanza apparentemente nota percorriamo la storia dell’uomo e della sua incredibile evoluzione. Continuando a camminare per la mostra arrivo davanti a opere composte da oggetti comuni! Le palette in Fixperts, le scope in VEEG, gli abiti in Sun+ e in Seated Design che, se ve le raccontassi tutte, avreste molto da leggere… Sono circondata da un ottimo osservatorio su valide alternative a quelle in commercio poco sostenibili: alcune toccano anche temi molto forti, come la morte in Capsula Mundi un’opera del 2003 di Anna Citelli e Raoul Bretzel.

Poi, però, arrivano altri lavori, lavori che sembrano da puro showroom, come le sedie di 100 Chairs in 100 Days di Martino Gamper, assemblaggi da pezzi diversi creati tra il 2007 e il 2017. Subito dietro di loro … altri strani mobili, come se tutto fosse venuto dal futuro (come in Plastigomerate), una serie di rifiuti elettronici rimontati per comporre, in verità, qualcosa di molto riconoscibile: è Ore Streams (2017-2019), un bel lavoro di FormafantasmaCome dicevamo, abbiamo cercato, trovato, creato e poi buttato, per anni, troppo. Tutto per una folle idea di fiducia incondizionata nel nuovo. In questo circuito, la lavorazione del metallo rappresenta una parte importante: lo abbiamo usato per difenderci, per spostarci, per commerciare. L’uomo gli deve molto. Ne stiamo portando alla luce ancora ma, se continueremo a farlo, entro il 2080 ne troveremo più in superficie, sotto altre forme, che nel sottosuolo, perché avremo abbondantemente esaurito tutte le riserve minerarie a nostra disposizione. Ci pensate a quanto metallo buttiamo quando buttiamo vecchi pezzi di hardware? Proprio per questo, gli esperti stanno cercando di capire come riciclare questi ingranaggi che contribuiscono ad una sua irregolare dispersione sulla terra, cosa non affatto semplice. Ore Streams, nello specifico, rappresenta il risultato di una ricerca sul riciclo dei rifiuti elettronici commissionata nel 2017 dalla NGV Triennial di Melbourne: rifiuti spesso riciclati in maniera inefficiente o illegale. Nell’installazione anche un’animazione 3D in cui gli artisti ci fanno vedere alcune possibili strategie volte a migliorare questi processi di recupero. Ore Streams è davvero un progetto che cattura, facendoci vedere come il design possa ricostruire qualcosa di importante, come un ufficio – un luogo in cui molti di noi passano la maggior parte della giornata quasi per una vita – risolvendo al contempo un problema, come il riciclaggio di elementi di scarto, estremamente dannoso per l’ambiente.

Broken Nature continua e ci sarebbe tanto da raccontare ma, prima di chiudere il mio racconto di questa giornata, mi soffermo velocemente ancora su due lavori, due lavori che “spostano”, il primo in una dimensione astratta e poetica, il secondo in una dimensione empatica e concreta. Inizio da Nature Self-Portrait di Laura Aguilar, delle fotografie in bianco e nero che l’artista americana ha scattato nel 1996.

 La fotografa, considerata una figura importante soprattutto per il suo riconosciuto sostegno a gruppi di emarginati, con la sua opera ci fa assaggiare un sentimento di grande tenerezza per queste persone che, a loro volta, sembrano averne per la madre Terra: corpi nudi, sdraiati o seduti, e di spalle su una valle. Fotografie che richiamano un certo classicismo per la composizione, dense di valori, e che raccontano, allo stesso tempo, delle molte vite lontane da noi, per tempo, spazio e condizione. Poi, c’è Goatman del 2016 di Thomas Thwaites 

Avevo letto di lui in un inserto di uno dei nostri quotidiani qualche giorno prima. Thwaites voleva capire cosa provano le capre, così si fa costruire una struttura che gli permette di assumere la posizione delle stesse e, per 3 giorni, va a vivere in un gregge mangiando anche erba grazie a un rumine artificiale che gli permetteva di assimilarla e digerirla! E non potevo non raccontarvi di questa strepitosa esperienza!

Broken Nature è una mostra per tutti che racconta di tutti. Una mostra che ci fa vedere quello che succede ed è successo nel mondo attraverso filtri diversi, dandoci la possibilità di approfondire meglio gli argomenti che trattano e per cui spesso rimaniamo addirittura sorpresi. Come se ci facesse vedere oltre.

Broken Nature è una mostra che ci fa toccare quanto l’arte sia nella vita e come possa renderla magica partendo da ciò che è concreto senza per forza sfuggire. Perché l’arte può anche incarnare possibili vie per un futuro migliore. E, non ci rimane che questa vita e dovremmo iniziare a fermarci per ripensarla perché stiamo per crollare. L’atteggiamento giusto – per citare Paola Antonelli, tra i curatori – è un ”atteggiamento collettivo, sistemico e a lungo termine” Dobbiamo unirci e condividere per salvarci. E l’arte può traghettarci in tutto ciò. Dovunque, anche a distanza. Basta pensare a quanto possiamo fare anche senza essere in un posto. Osservazione forse banale, lo so. Ma il fatto è un altro: possiamo ”cambiare” cambiando codici, comportamenti, mentalità. E questo non è affatto banale. Cosa penserà di noi chi verrà? Il pianeta è avvolto da uno strato artificiale che abbiamo creato noi, la tecnosfera La tecnosfera è piena un po’ di tutto, da centrali elettriche a piccoli oggetti. In più, molti tra questi elementi con il tempo diventeranno tecnofossili, come li chiamano gli esperti, o altro…

Come dire, la situazione ci sta sfuggendo di mano. E Broken Nature è anche una riflessione sul moderno concetto di “Natura” oggi. Quanto di quello che crediamo come naturale lo è veramente?A mio avviso uno tra gli aspetti più potenti della XXII Triennale è proprio questo. Abbiamo contribuito ad avere la Terra così come è adesso e molte cose le ignoriamo, di altre non ci siamo neanche mai accorti che sono mutate diventando artificiali anche se ci sembrano l’opposto. Questo è grave. Siamo nati dalla Natura e l’abbiamo infranta. Abbiamo totalmente perso di vista il senso per le origini. E qui mi ritorna in mente il titolo dell’ultima edizione di Manifesta che è perfetto: Il Giardino Planetario. Coltivare la CoesistenzaAbbiamo distrutto e trasfigurato. Abbiamo colonizzato, vittime di miti storici e della tecnologia. E abbiamo perso. Tutti, tutto il mondo.
Ma possiamo ancora costruire una porta da varcare per provare a migliorare la situazione attuale e creare, forse, un’era migliore. E senza paura: ormai lo sappiamo che dietro una grande evoluzione c’è sempre una rivoluzione. Infine, visito la Nazione delle Piante, di Stefano Mancuso, che è un’altra “esperienza” – un modo per ascoltare la Natura e provare a capirla per vivere meglio insieme a lei senza infrangerla – e le sale delle Partecipazioni Internazionali.

Sono un po’ stanca, lo ammetto, ma piena di pensieri nuovi in testa. Guardo il telefono ed è ora di pranzo, vado fuori ed è ancora una bellissima giornata di sole. Da Broken Naturea “Sunny Nature” (come a Litiopia: nel Padiglione della Republica Ceca che avevo lasciato da qualche minuto…).

 

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