Frammenti onirici

Polia è il titolo del progetto concepito da Carola Bonfili per gli spazi della Fondazione Baruchello di Roma. La mostra, curata da Carla Subrizi, è visitabile fino al 26 di luglio. Come già accaduto per altre opere, vedi ad esempio 3412 Kafka, l’artista parte da suggestioni narrative per sviluppare un percorso autonomo fatto di immagini e suoni. In questo caso lo spunto originale nasce dall’esplorazione di Hypnerotomachia Poliphili (1499), in cui l’anonimo autore racconta il sogno del suo protagonista Polifilo, un viaggio psichico ed erotico alla ricerca della donna amata. Ad ispirare in particolare Carola sono le xilografie eseguite da Francesco Colonna a coronamento del testo e che traducono simbolicamente le allegorie del racconto. La mostra articolata in diverse sale presenta un video, frutto della collaborazione con l’artista e sound designer Francesco Fonassi e una serie di sculture che ricostruiscono l’archeologia della narrazione.

Chi è (o cos’è) Polia?

Polia è una figura che non si vede mai, ma costantemente presente, come Rebecca, la protagonista del film di Hitchcock Rebecca la prima moglie. A me interessava spostare l’attenzione da questa figura centrale a quella delle ninfe, che abitano tutto il libro, e apparentemente con un’importanza marginale rispetto a quella di Polia. Lei è l’oggetto dell’attenzione di Polifilo, il narratore, ed è una figura idealizzata, a cui si riferisce quasi solamente all’interno della sfera sentimentale, mentre le ninfe, come lo sono tutte le figure femminili incontrate, hanno una duplice funzione: apparentemente vengono descritte come il resto della moltitudine di oggetti, ma in realtà sono il suo coro, sono i tanti interpreti del suo discorso interno, frammentato, e rivolto a Polia.

Nel tuo lavoro la suggestione letteraria è sempre il punto di partenza. Raccontaci questo processo.

È un processo piuttosto naturale; mentre leggiamo un libro tendiamo a compilare le parti mancanti, seguiamo la traccia letta e contemporaneamente visualizziamo e costruiamo uno scenario nuovo. Più il pensiero ci sembra definito, più riusciamo a visualizzarlo meglio, e paradossalmente a sentirlo anche meglio, come fosse una traccia con un volume più alto che emerge rispetto ad un brusio di fondo. Ed è possibile iniziare a lavorare attorno a quello che rimane. Ma credo anche che la lettura serva da richiamo, o per isolare e definire un pensiero costante che non riusciamo a sintetizzare.

Parlando della tua mostra, la curatrice Carla Subrizi fa riferimento all’elemento del tempo, un tempo molteplice, trasversale, onirico. Tu come lo definiresti?

Lo definirei un tempo sincronico; le raffigurazioni descritte nel libro, i simboli, i geroglifici, le iscrizioni riportate in lingue diverse, sono per la maggior parte un’invenzione di Francesco Colonna. Associava a frasi di autori latini dei simboli, e poi li inseriva dentro alla narrazione, come antichi ritrovamenti. Faceva quello che avrebbe fatto Burroughs cinquecento anni dopo, una sorta di cut-up rinascimentale. Ha riutilizzato dei simboli già esistenti, apportando delle leggere variazioni e conferendogli un nuovo significato. Mi interessa questa continuità temporale, la riscrittura e la reinterpretazione di immagini talmente potenti che continuano ad evolversi e in cui rivivono, stratificati, tutti i loro passaggi.

Quali sono gli elementi dell’ Hypnerotomachia Poliphili  (1499) che ti hanno particolarmente attratta?

L’immagine da cui sono partita è una delle xilografie del libro, l’allegoria del tempo. Il disegno ritrae un gruppo di persone che si tengono per mano in un girotondo. Se si inizia ad osservare il volto di ogni personaggio raffigurato, partendo dal centrale in senso orario, si nota che a poco a poco ogni testa invece di continuare nella nuca, scopre un secondo volto. Mi interessava riprodurre, per poi aver la possibilità di osservare, la dinamica di quell’azione più da vicino, per vedere delle possibili interazioni tra questi esseri, la cui deformazione, li rende creature mitologiche. La ragione che però mi ha portato a pensare concretamente al lavoro, è legata alle ragazze che hanno interpretato le ninfe. C’è una qualità che le accomuna, un continuo moto interiore che quasi scompare nel linguaggio del corpo, utilizzato come mezzo per disperdere e trasformare delle energie contrastanti, che altrimenti diventerebbero un limite. ”Ninfa è dunque la materia mentaleche fa agire e che subisce l’incantamento, qualcosa di molto affine a ciò che gli alchimisti chiameranno prima materia” (Roberto Calasso

Nelle storie che scegli di raccontare c’è sempre qualcosa di non detto, un elemento mancante: il finale incompiuto di Amerika ricostruito da Kippenbergere nel caso di Hypnerotomachia Poliphili un autore ignoto. Questo aspetto è fonte di particolare interesse per te?

Nel momento in cui Kippenberger immagina un finale per Amerikaè come se spostasse i libro in un’altro momento storico, e più precisamente, nel nostro. Colonna ha firmato Hypnerotomachia Poliphili ponendo come prima lettera di ogni capitolo le lettere che compongono il suo nome. Il margine lasciato da un’attribuzione non completamente certa rende possibile la costruzione di altre narrazioni attorno al libro, e credo che questo possa essere un elemento di interesse.

 Raccontaci la genesi di questo progetto, quando è iniziato? Dove hai girato e perché?

Ho iniziato a lavorare a Polia quest’autunno, dopo che Carla Subrizi mi ha invitato a realizzare un lavoro per la Fondazione Baruchello, lasciandomi completa libertà sul progetto. La prima scena del video è stata girata sulla neve, semplicemente per una questione cromatica; le ninfe avrebbero avuto in mano degli archi neri, e volevo che questi si staccassero dallo sfondo mentre la loro silhouette si fondeva nel paesaggio. La seconda scena invece, incentrata sul canto, è stata girata in un vecchio cinema abbandonato. Quando l’ho visto la prima volta, era quasi totalmente buio e non riuscivo a leggerne bene l’architettura interna. Questo elemento mi interessava in relazione al materiale audio sul quale stava lavorando Francesco (Fonassi), un canone ascendente dai contorni indefiniti e difficile da inscrivere in uno spazio. Le scene successive sono state girate rispettivamente nel mio studio, tra le macerie di alcune sculture, e in Val Saviore, dove l’anno scorso, a causa di un’ondata di vento anomalo, sono caduti quasi diecimila alberi. Questo paesaggio, tragicamente affascinante, racconta nella sua nuova disposizione la portata dell’evento catastrofico che ha piegato chilometri di vegetazione. Un evento assordante che viene vissuto in un modo silenzioso dalle ninfe, che, nella loro fissità , sembrano adattarsi a questa nuova deviazione di un ciclo non più dettato solamente da leggi naturali.

Il video che è presenti alla Fondazione Baruchello si avvale anche della preziosa collaborazione con Francesco Fonassi per quanto riguarda la colonna sonora. Come avviene questo scambio di suggestioni intorno al lavoro?

La collaborazione con Francesco è centrale perché la sua visone influisce anche sulla costruzione del lavoro, e a volte, nonostante sembrerebbe più naturale il contrario, è l’elemento intorno al quale il lavoro stesso si sviluppa. 

Caliamoci nel mondo, in quest’epoca di grandi complessità e contraddizione, quale pensi  sia il ruolo della narrazione?

Personalmente mi interessa mantenere alcuni codici propri delle narrazioni tradizionali, per poi sgretolarli e ricomporli in una forma non necessariamente lineare che segue un processo più intuitivo sviluppato su una linea sincronica e simbolica.
La narrazione ha la capacità di attivare un processo di simulazione;  quando ascoltiamo una storia, anche se consciamente sappiamo che si tratta di finzione, il nostro cervello processa le informazioni come fossero reali, con le emozioni che ne conseguono. E lo fa anche con le narrazioni notturne, con la sola differenza che alcune zone del cervello  non vengono attivate. Credo che la narrazione sia  una forma di comunicazione molto efficace, l’importante è che rimanga nella sfera della cultura, del linguaggio e della sperimentazione. O forse, come scriveva Lovecraft nel 1927: “ Tutti i miei racconti si fondano sulla premessa fondamentale che leggi, interessi ed emozioni umane comuni non abbiano alcuna validità e significato generale nell’universo”.