Largo ai giovani

Roma

Arturo Passacantando e Tommaso De Benedectis, romani e con esperienze di studio in Inghilterra, il primo nel cinema, il secondo nell’arte, raccontano della loro creazione, The Orange Garden, nel 2015. The Orange Garden è un collettivo curatoriale che vuole far emergere il talento degli artisti italiani e internazionali, organizzando mostre a Roma e fuori. Nessun contatto diretto iniziale con l’arte, ma solo – se questo è poco – una grande voglia di far sentire la voce dei giovani nel mondo artistico di Roma. La volontà di lavorare con gli artisti e di sposarne la visione, la scelta di Roma, l’apertura dello spazio. Qui c’è una bella storia, ma soprattutto un esempio di come a volte, se non sempre, per cambiare le cose basta farle.

Cos’è The Orange Garden e come nasce? «Abbiamo fondato The Orange Garden come un collettivo di artisti e curatori, con l’obiettivo di creare un dialogo tra artisti locali ed internazionali. Da sempre itineranti, di volta in volta trovando spazi diversi in città per fare le mostre, da ottobre 2018 abbiamo uno spazio fisso, in Via Crescimbemi. Il Giardino degli Aranci era di fatto il luogo dove andavamo con altri amici dopo scuola.»

Operate anche come una galleria? «Sia come una galleria che come uno spazio espositivo. Noi vogliamo eliminare l’identità gerarchica della galleria e allo stesso tempo operiamo commercialmente come una galleria, finanziando le mostre con le vendite. Per noi dare una piattaforma equa agli artisti senza che la loro visione sia distorta è una priorità.»

Con quali artisti avete iniziato a lavorare, secondo quale criterio e cosa fanno loro ora? «I primi sono stati GB group. Poi sono venuti Costanza Chia, Pietro Pasolini, Leonardo Crudi e altri. Abbiamo esposto principalmente giovani, ma non seguiamo un criterio assoluto, ci piace essere liberi di trovare qualsiasi forma di espressione, purché crediamo nella visione dell’artista. Molti di loro continuano a lavorare a Roma, altri hanno la doppia residenza all’estero. È bello che molti scelgono ancora Roma come base. Anzi, Ontani dice ”io rimango a Roma perché è una città barbarica”. Non potrà mai plastificarsi come Londra e New York, è una realtà troppo selvaggia per poter essere contenuta, specialmente nell’arte.»

 È lo stesso motivo per cui voi avete scelto Roma? «Da romani non potevamo ignorare l’ispirazione che questa città offre e non dare il nostro contributo. Abbiamo anche pensato di stare a Londra, ma ci sentivamo in colpa. Ai tempi ci siamo resi conto che qua non c’erano realtà simili, a differenza di oggi. E poi a Roma ci sono opportunità che non si trovano altrove, come gli spazi che abbiamo occupato. A volte il sistema nel suo complesso è pesante e non offre possibilità di finanziamento all’altezza, per esempio dell’Inghilterra, ma se lo si usa a proprio vantaggio si possono fare un sacco di cose.

Cosa vi ha spinto a stabilizzarvi in uno spazio vostro? «Per noi era essenziale essere itineranti, perché ogni artista doveva avere carta bianca su cosa fare, per creare opere site specific. I primi anni trovavamo spazi che erano in condizioni pessime e che rinnovavamo con le nostre mostre. La prima collettiva l’abbiamo fatta in un luogo stupendo, interamente affrescato e abbandonato, accanto al Pantheon. Abbiamo scelto di fissare uno spazio perché questo era in condizioni perfette e poteva diventare un punto di riferimento. È vero anche che è un po’ limitante perché ti mette nella condizione di pagare un affitto, che non è ideale per i nostri obiettivi.

In cosa The Orange Garden si distingue rispetto ad altre realtà simili in Italia? «Il dialogo che instauriamo tra artisti locali e internazionali e la purezza con cui ci affacciamo a questo mondo. Generalmente nel mondo dell’arte hanno tutti dei doppi fini, noi lo facciamo perché vogliamo creare, riflettere e far riflettere. Inoltre, in mezzo alle tante mostre istituzionali che la città offre, andiamo a riempire un vuoto, dato dalla mancanza dell’iniziativa e quindi della visione dei giovani che amano e si approcciano al mondo dell’arte.

Quali sono le ambizioni di The Orange Garden? «Riprenderemo a fare mostre in giro, ma continueremo a fare mostre a Roma. L’unica domanda è se tenere lo spazio fisso o meno. Sta diventando un polo dove la gente si ritrova e può vedere cose particolari e di questo siamo felici, ma non vogliamo metterci nella condizione del gallerista che fa la mostra per vendere. Di solito ogni opera che mettiamo al muro è un’opera in cui crediamo in tutto, ma bisogna essere bravi a navigare in questo settore. Questi anni comunque sono stati importantissimi, abbiamo mostrato alla gente che fare iniziative di questo genere è possibile.»

Di cosa tratta la prossima mostra? «Sarà una mostra sulla figura della donna nella società contemporanea, plasmata dagli standard inattendibili e assurdi del capitalismo rispetto a come deve essere una donna. Per curarla avevamo bisogno di integrare il nostro punto di vista con quello femminile appunto, e così abbiamo coinvolto Paulina Bebecka. Le artiste prendono gli stessi meccanismi e trovano una soluzione a ciò riappropriandosi del concetto. Negli artisti della nostra generazione è comune prendere ciò che affligge e ribaltarlo per trovare una soluzione. La società prova ad inscatolare la femminilità e non ha ancora accettato che è un concetto vastissimo, cosa già riconosciuta dai giovani. Sono tutte donne, tranne un uomo che è un trans, di ogni età e provenienza. La mostra era da anni che volevamo farla in Italia. In Inghilterra ci sono stati movimenti tipo Tracey Emin che hanno fatto una rivoluzione sociale attraverso l’arte, non qui, perché non è un’agenda che è stata portata avanti.»

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