Diego Miguel Mirabella

Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo un articolo pubblicato sul numero 112.

Un viaggio in Marocco è l’occasione per una nuova suggestione. Così Diego Miguel Mirabella si avvicina a ogni suo nuovo progetto, partendo da una narrazione di cui conserva pochi frammenti. Quello di Diego è un approccio poetico dove al susseguirsi di immagini in movimento si sostituisce una visione evocativa. Il suo modus operandi ha sempre avuto a che fare con quello della messa in scena teatrale. Pensieri, immagini e parole vengono messi in campo e performano la loro stessa esistenza sotto la guida sapiente del regista, in questo caso l’artista stesso. Non si tratta semplicemente di trasmettere loro un movimento, ma piuttosto di dar vita al teatro delle cose attraverso un percorso in divenire. Per questo Diego spesso non è solo nel suo lavoro, le collaborazioni con altri autori o esecutori permettono una distanza tra l’artista e l’opera tale affinché il processo si compia. Questo processo è alla base anche della sua ultima ricerca, un progetto di grande forza visiva in cui le suggestioni del paesaggio vengono restituite attraverso la tecnica del mosaico, la cui reiterazione è interrotta solo dalla presenza dell’autore sotto forma di pensieri o immagini.

Guardando al tuo ultimo lavoro, che si è aggiudicato il premio speciale SpazioCima, una domanda sorge spontanea: cos’è che non ti fa dormire la notte?
«Esistono tutta una serie di cose che non mi fanno dormire la notte. Non tutte poetiche e molte iscrivibili in una sfera privata. Nel 2013 ho realizzato un piccolo lavoro, un modellino di una casa con il tetto fatto con un foglio di ottone sostenuto da muri in legno e colonne in vetroresina, molto bello nella sua instabilità. Dentro questa casetta c’era una pila di fogli, ognuno contenente un testo che si rifletteva sul cielo del soffitto. Compito del gallerista era sfogliare giornalmente la pila. Il lavoro si chiamava L’alba ti scopre nella stessa posizione e sul primo foglio c’era proprio la frase “quello che non ti fa dormire la notte”. La continua riflessione tra il verso e il soffitto in ottone mi teneva sveglio per una forma di bonheur: una continua riflessione non poteva far dormire».

La polvere, un fascio di luce, un fiore. All’inizio del tuo percorso artistico mettevi «in scena l’esistenza di quei piccoli elementi di cui non ci si cura…
«Il lavoro della polvere (tutto aperto, tutto chiuso IN), il fiore illuminato da una piccola luce al led (Funzionava in modo inappuntabile…) erano tutti lavori che io pensavo accostati uno all’altro come lo sono gli attori sul palco e che interpretavano delle scene drammatiche che io scrivevo per loro. L’abbassamento dello sguardo era la mia posizione di visione, di un uomo attento a ciò che succedeva appena accanto ai suoi piedi, che guardava alle cose e compilava copioni di eventi grandiosi o infinitesimali, come fanno i registi. Poi rimanevano le opere».

A un certo punto qualcosa è cambiato, all’urgenza di guardare alle cose, al paesaggio, si è aggiunta quella di non essere più solo.
«Parafrasando ho semplicemente alzato lo sguardo e procedo verso l’orizzonte sperando non sia più tale. Mi capita di lavorare con altre persone o culture perché con loro misuro una distanza: da loro, da me. Mi distanzia a volte anche dalle finalità dell’arte così come le conosciamo oggi. Io cerco il mio stesso straniamento».

A maggio di quest’anno sei stato in Marocco e qui ha preso forma il progetto che stai attualmente portando avanti. Quale suggestione è alla base di questo lavoro?
«La prima volta che ho posato piede in Marocco è stato in realtà nel 2015, un inaspettato e gradito regalo. Ci sono poi andato a maggio per un mese e a novembre ci tornerò. La tecnica della zellige è un lascito del mosaico nostrano, probabilmente conseguenza dell’invasione dell’Impero Romano nell’antica Mauretania. Non si può fare a meno, appena atterrati a Fès, di essere investiti dalla presenza costante di questi mosaici che decorano praticamente ogni casa, moschea o bar. All’interno della ripetitività di segni tipica della zellige, ho voluto inserire delle frasi che immagino come appunti di un artista inoperante, seduto ad un bar e intento a fermare su carta le sue suggestioni. Queste suggestioni sono il copione di un lavoro che non sarà mai sviluppato ma che al contempo diventerà pietra, unica superficie. La progettazione dei lavori riguarda me, l’esecuzione è affidata ad un artigiano locale, Ahmed F., che ho interpellato in virtù di quello che sa fare, nello stesso modo in cui io so fare quello che so fare. Forse niente. Come niente sembra facciano i poeti quando guardano alle cose».

Scolpita in un altro dei tuoi lavori, la frase Nella tragicità solare, le mie dita cascate tristi. La “tragicità solare” fa parte del vocabolario di Albert Camus, che rapporto hai con lui?
«C’è una cosa di Camus che mi ha accompagnato in ogni taxi a Fès, un libro sgualcito dentro la mia borsa dove dichiara di non considerarsi un filosofo perché il suo pensiero non è sistematico. Leggendo i suoi romanzi, ci si rende conto del fatto che Camus non fa altro che narrare la sua vita. Eppure quella sua vita, che è il suo segreto, è la stessa che ce ne fa parlare come di un pilastro del pensiero; meridiano in questo caso. Io sono siciliano, la tragicità solare mi appartiene e se lo so dire è grazie a Camus. Sono andato in Marocco per una fascinazione che mi porto da anni per quei paesaggi e le tipiche architetture e decorazioni islamiche che nel loro gioco di vedo non vedo lasciano presupporre un segreto. E le donne più belle sono quelle che serbano un segreto. Nella tragicità solare le mie dita cascate tristi è una frase per tutti e al contempo appartiene al mio di segreto. E le dita quando scrivi qualcosa si riversano sul foglio, sembrano delle cascate».

«Il mio è un lavoro sull’entusiasmo», parole tue.
«Fin da piccolo ho avuto problemi di concentrazione e di agitazione e forse più che il mio lavoro, sono io l’entusiasta. Insomma, un po’ di ottimismo serve sempre».

BIO
1988
Nasce il 9 marzo a Enna

2000
Si trasferisce a Roma dove si forma fino alla laurea all’Accademia di Belle Arti di Roma. Frequenta lo studio di Pietro Fortuna

2013
Prima mostra personale Entrano Fuggendo da Operativa Arte contemporanea a Roma

2015
Trasferimento a Londra. Partecipa ad alcune collettive tra cui Trince alla Nuova Pesa di Roma e a Studi Festival a Milano

2016
Co-fonda l’artist run space Limone. Partecipa alla mostra The habit of a foreign sky a Milano e alla collettiva Bodikons a Belmacz gallery a Londra

Info: www.diegomirabella.com

QUELLO CHE NON MI FA DORMIRE LA NOTTE
Quello che non mi fa dormire la notte è il titolo dell’opera con cui l’artista partecipa all’edizione 2017 del Talent Prize. Il lavoro appartiene alla serie di opere concepite durante un viaggio in Marocco a maggio 2017. L’esplorazione del paesaggio è condotta attraverso l’utilizzo di una tecnica locale di lavorazione della ceramica detta zellige e già nota all’artista per via delle sue origini siciliane. Tra gli incastri del mosaico, sapientemente realizzati da un artigiano locale, Mirabella inserisce brevi frasi poetiche appartenenti a suggestioni personali. Quello che non mi fa dormire la notte è appunto un incipit che accompagna il primo lavoro della serie e fa riferimento all’approccio poetico attraverso cui l’artista si relazione alle cose.