Jack Fisher

 Non avete mai sfogliato il nostro cartaceo? Per farvi recuperare, vi proponiamo un pezzo dal numero 110 

«I miei lavori sono sempre l’estensione di un’idea che ho trovato o testato fuori dalla galleria». Fuori per Jack Fisher significa dentro la realtà quotidiana ma anche su Internet, lo spazio aperto, globale e democratico dove l’artista organizza residenze con l’obiettivo di condividere e scambiare idee, opere e performance spesso create di getto, qualche istante prima della pubblicazione online. Il come, ce lo facciamo raccontare da lui, inclusa quella volta in cui è quasi riuscito a trasformare il suo lavoro al ristorante in una residenza d’artista, il perché è semplice: secondo Fisher, l’arte che non stimola la creazione di altra arte ma soprattutto di nuove forme di scambio e contaminazione culturale, non serve a niente».

Ti chiedi mai se la tua arte sia realmente alla portata di tutti, escludendo il pubblico che ti segue online?
«Per un artista che lavora online è impossibile affermare che la propria arte è accessibile a tutti, solo il 49% della popolazione mondiale ha accesso al computer. Tutti possono fare arte, lo sostengo fermamente, tutti possono creare e avere la possibilità di commentare o criticare. Non pubblico lavori ogni giorno e non ho miliardi di follower, preferisco che siano gli altri a inciampare nel mio lavoro e a decidere se quello che vedono è arte. Di recente ho aperto un gruppo su Facebook chiamato Poo club, in cui ho invitato tutti i miei amici a fotografare le loro feci. Non so se è arte ma so che non lo chiuderò mai. Penso che le idee di ognuno non dovrebbero raggiungere tutti, perché verrebbero a mancare il valore e il naturale processo di disseminazione, nonché il potenziale di connessione o ibridazione culturale».

Quali differenze hai notato, nel tuo approccio e nelle reazioni del pubblico, quando hai esposto le tue opere in galleria?
«Lo spazio bianco della galleria soffoca completamente il contesto in cui è nato precedentemente un lavoro, quindi spesso mi ritrovo a pensare che nel mio caso sia un posto completamente sprecato. Non produco intenzionalmente lavori che ruotano attorno ad argomenti ironici ma il risultato è che il pubblico li percepisce come tali, forse perché riconoscono la mia goffaggine e il risultato è che si crea un breve momento di evasione. O forse ridono di me, non con me. Ma finché riesco a indurre una reazione posso considerarla un’esperienza positiva, giusto? Ci sono state occasioni in cui le persone non riconoscevano l’intervento finché non leggevano qualcosa che lo segnalasse. Non mostro mai due volte lo stesso lavoro e provo a evolvermi sempre».

Pensi di aver raggiunto il tuo obiettivo, a oggi?
«Wow! Penso proprio di no. Credo sia un modo di pensare o di essere, uno stato costante di riflessione e l’effetto che ha sulle vite degli altri è la cosa più importante. Una forma di consapevolezza di tutto ciò che c’è nel villaggio globale e non solo i confini della piccola bolla in cui viviamo. Perciò no, lo scopo non è ancora raggiunto, potrà mai esserlo? Nella primavera del 2016 sono diventato padre, avere il privilegio di imparare da una nuova vita è la cosa più incredibile che ci possa capitare. Il mio progetto è appena iniziato in realtà. Cerco continuamente di ottimizzare i miei metodi di produzione e limitare gli effetti nocivi per l’ambiente che derivano dalla produzione di oggetti senza utilità. Sono un fervido sostenitore dell’energia solare come alternativa per il futuro del nostro pianeta. Forse dobbiamo sfruttare il potere del nostro sole prima di cercarne altri da distruggere».

Nel 2015 hai creato una serie di lavori, The Notion of the Leftover, in cui mettevi avanzi di cibo dentro scatole trasparenti.
«In quel periodo vivevo da mio zio e mentre cercavo una sistemazione accumulavo oggetti. In una specie di rituale Zen di purificazione ho utilizzato una vecchia custodia di cd come vetrina per i materiali che avevo trovato o con quel che avanzava quando cucinavo. Quei materiali erano il duplice prodotto del consumo o l’avanzo di ciò che già esiste. Una volta create le scatole, ottenevo il micro clima adatto per la proliferazione dei batteri, un potente incubo per i curatori».

Work at work è un tuo progetto su Tumblr che di recente hai aperto alla partecipazione del pubblico, nato durante un’esperienza che hai voluto trasformare in residenza d’artista: il tuo vecchio lavoro in un ristorante.
«I turni di lavoro sono folli e trovarmi in una cucina che produce continuamente materiale per i propri clienti non mi sembrava molto diverso dall’essere un digital artist che produce costantemente per i propri follower. Compiere piccoli gesti all’interno di uno spazio utilizzando materiali destinati alla spazzatura può trasformarti in una macchina, ma la mia mente ha sempre mantenuto un fermento creativo».

Che cosa hanno in comune Jack Fisher e James Franco, a parte le iniziali di nome e cognome, e perché hai scelto lui come icona?
«Le idee e gli scritti di Jacque Fresco per il progetto Venus mi avevano incuriosito e ho iniziato a chiedermi come fare a coinvolgere i potenti per trovare dei finanziamenti. Ho cercato online le star più famose per attirare la loro attenzione, James Franco sembrava fare al caso mio. Ho realizzato una serie di immagini combinando le citazioni di Fresco e la faccia di Franco ma solo alla fine ho realizzato che avevamo nomi con le stesse iniziali. Pensare all’artista come a una celebrity o un brand mi fa inorridire. Sono più interessato al ruolo dell’artista».

Come essere umano o come persona che ha un compito verso il pianeta?
«È difficile separare il lavoro dall’artista. Senza la conoscenza della persona il lavoro non si può comprendere fino in fondo. Ma a volte anche il silenzio ha un potere e nel silenzio il riflesso degli altri sul proprio io».

Jack Fisher è il tuo vero nome?
«Sì».

 

BIO
1991
Nasce 14 aprile a Meyerside, Inghilterra
2014
Si diploma in Arte al Leeds College of Art e inaugura la sua prima mostra personale online The internet told me to do it
2015
Durante la 56esima Biennale di Venezia partecipa alla mostra collettiva Pizza Pavillion con l’opera OK Google nel ristorante Pizza al volo di Campo Santa Margherita
2016
Presenta la performance Have I lost your attention already? Per il progetto Crit-a-Öke della Tate di Liverpool;
2017
Inaugura la sua prima personale in Italia nella galleria T-Space di Milano: I could set all of you on fire and abso-f **king-lutely nothing would change

Info: jack-fisher.eu

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