La Cina poco più di anno fa lo ha consacrato a simbolo della città di Chongqing con celebrazioni e festeggiamenti, un peperoncino alto 7,5 metri opera dell’artista Giuseppe Carta. Una maxi scultura, dalla silhouette sinuosa e snella intitolata con un termine vagamente onomatopeico Capsica Redlight (probabilmente dal termine Kapto greco ‘mordere’) e che ha conquistato con una forma pop e coloratissima il pubblico orientale felice di riconoscergli un tributo, quasi fosse un totem sacro. Dalla Cina le sculture insieme ad altre numerose opere sono arrivate a Pietrasanta, cittadina toscana ai piedi delle Alpi Apuane e uno dei centri italiani più stimolanti e vivaci per numero di gallerie, fonderie artistiche e laboratori per la lavorazione del marmo della vicina Carrara.
La mostra che Carta ha ideato si chiama Orti della Germinazione ed è visitabile fino all’11 giungo. Con questo titolo l’intera esposizione conta sculture giganti, gruppi di lavori di dimensioni più ridotte e numerosi olii su tela che sono stati collocati negli spazi urbani e religiosi della cittadina, invadendola come un museo diffuso da una parte o come un orto reale con piante nate anche spontaneamente dall’altra. Il centro storico si trasforma in un’apoteosi di frutti e di ortaggi della nostra terra.
Sparsi sul pavimento della Chiesa di Sant’Agostino ciliegie, melograni, pere, limoni frutti della nostra tradizione con le quali l’artista, originario della Sardegna, dove è nato e vive ha una vicinanza continua e molto stretta. Sono i frutti della nostra tavola, quelli che vediamo, che tocchiamo, che assaporiamo e che nell’immaginario collettivo incarnano l’idea di crescita, di rinnovo, di germogliazione e nuova vita materica e spirituale, portandosi un carico simbolico attribuito in passato da credenze, miti, verità popolari. Le sculture dei melograni, con cui le donne romane si adornavano i capelli, sono i simboli della fertilità, tanto abbondante, si diceva, quanto lo sono i suoi chicchi purpurei.
Ma l’icona, l’elemento principe, la forma prescelta da Carta in questa primavera per irradiare di un vivificante rosso la cromia bianca dei monumenti di Piazza Duomo è il peperoncino, meglio riconosciuto scientificamente con il nome capsum il cui termine latino rimanda alla parola scatola, potremmo dire scrigno di preziosi semi per di più creduti afrodisiaci. Il peperoncino, anzi i peperoncini traslati nella mega dimensione, che svettano verticali ognuno con un andamento diverso, suscitano una gioiosa e ironica meraviglia, rimanendo una forma sensuale e accattivante per il loro acceso colore e per l’immediato rimando alla vita in potenza che portano in sé. Come ha spiegato l’artista il peperoncino è simbolo erotico, vicino nella forma e nell’idea a quella della vita.
Fin qui tutto bene, se non fosse che sulla base di questi presupposti si è acceso un clima di critica sfavorevole alla mostra di Carta, una critica diventata severa e puntuale che puntualizza l’intera esposizione come blasfema e oltraggiosa, sia per le corone di peperoncino che l’artista ha messo intorno alla testa di una statua del Cristo o per i peperoncini al posto delle ostie all’interno della Chiesa di Sant’Agostino. Sono state venticinque le sculture in resina, bronzo e acciaio che Carta ha portato a Pietrasanta e che hanno coinvolto una cinquantina di maestranze specializzate del luogo e diverse eccellenti Fonderie Artistiche come la Mutti. Eppure sono state mosse critiche contro di lui di inadeguatezza e incompatibilità con i luoghi che l’hanno accolta, la duecentesca Piazza Duomo e la Chiesa di Sant’Agostino da sempre spazi ideali per l’arte di Botero, Cascella, Mitoraj solo per citare i più noti e Dalì neanche due mesi fa. Insieme alle critiche è arrivato anche il successo dovuto e di certo se la statua dell’algerino Abdel Abdessemed che nel 2013 stava in Piazza Duomo e ritraeva la testata data da Zidane a Materazzi ha superato critiche e perplessità, quelle alle eccellenti celebrazioni della natura di Giuseppe Carta saranno ancor prima dimenticate.