Quella di Claudia Petraroli è un’indagine sulle origini della fotografia condotta per antitesi. Elementi che si scontrano su uno stesso campo di analisi arrivando a trovare una dimensione di coesistenza stridente. Se il palindromo era l’espediente retorico per un progetto che partiva dall’analisi della traccia attraverso una serie di immagini d’archivio, al centro de La pregunta de sus ojos, lavoro sviluppato nel corso della residenza di LIVEstudio#3 da Metronom, è il rapporto tra sacro e scientifico custodito nelle immagini acheropite a definire il progetto. Letteralmente “non fatte da mano umana”, si tratta di reliquie sacre storicamente riconducibili a veri e propri fenomeni iconografici divini. Portando il tema su un piano di razionalizzazione, Petraroli si allontana da ogni tipo di approccio sentimentalista ed emotivo per lasciare il campo a un diverso miracolo, quello tecnologico. Partendo dal mito di Nostra Signora di Guadalupe, icona venerata in Messico, secondo il quale all’interno delle sue pupille ci sarebbe il riflesso di una serie di personaggi, l’artista decide di affidare la rielaborazione delle figure a una stampante 3D. Il risultato è una scultura riprodotta anche su due drappi nei colori del pantone 2016, che, insieme alla documentazione fotografica degli studi sull’icona sacra, reifica ciò che è difficile materializzare: un miracolo.
Nel lavoro Palindrome imperfetta la manipolazione di una serie di fotografie prese dall’archivio di famiglia diventa il pretesto per parlare di un’assenza. La soluzione formale del dittico rappresenta in un certo senso lo specchiamento di due realtà contrapposte. Puoi parlarci di questo progetto?
«È un lavoro che è iniziato come una specie di catarsi personale e artistica. Il puro gesto della cancellazione, da solo, non permetteva di trasporre in immagine lo stato d’animo che avrei voluto comunicare. Il dittico è uno schema dialettico in cui le due parti si implicano a vicenda e l’una rimanda all’altra, non c’è sintesi, soluzione. In questo caso presenza e assenza convivono nello stesso momento in una dimensione paradossale. Che è un po’ l’essenza di ogni immagine fotografica, che trattiene e isola una traccia, il tempo interrotto che rivive ogni volta nel tempo del nostro sguardo, la vibrazione nell’immobilità. Alla fine quello a cui mi trovo spesso a girare intorno è la contraddizione endemica di tutte le cose. Ho utilizzato queste immagini con l’idea di sovvertire una temporalità ormai realizzata e creare al suo interno un’asimmetria, un decentramento, che oggi, a distanza di un po’ di tempo, vedo anche come un’apertura, una porta che si schiude».
Dalle immagini vernacolari a quelle acheropite. Com’è avvenuto questo passaggio?
«L’archivio di famiglia è stato il mio punto di avvio, forse banale ma sicuramente più naturale. Non potrei mai parlare di qualcosa che non mi appartiene. Certo le immagini vernacolari esercitano su di me un fascino inesauribile. Ma ho avuto bisogno di raffreddare il mio approccio e prendere delle distanze da un tipo di affezione troppo sentimentale. Le immagini acheropite mi affascinavano fin dai tempi dell’università, l’idea stessa di un’immagine che si facesse da sé mi pareva grandiosa. Approfondendo gli studi sulle origini della fotografia e su come il desiderio di ottenere delle immagini tecniche, non più disegnate o dipinte, ma autonome, fosse già presente molto tempo prima che venisse inventata, l’associazione tra le due è stata quasi automatica».
Le immagini acheropite vengono generalmente legate al sacro. Nel tuo lavoro La pregunta de sus ojos è interessante il fatto che venga estesa questa denominazione alla tecnologia. Tema religioso e scientifico come si intersecano nel tuo progetto?
«Pensiero religioso e pensiero scientifico provengono dall’identica necessità di fare ordine e superare le contraddizioni. La religione la attua ponendo dei dogmi, dei principi preposti. Entrambi sono dei percorsi in qualche modo verticali. Ne La pregunta de sus ojos questi due pensieri si mescolano in una maniera in cui l’approccio scientifico in un certo senso si mette al servizio della fede, generando un risultato totalmente altro dal punto di partenza. Trovo che ci sia qualcosa di ironico in questo, almeno quanto il fatto che la religione ricorra spesso alla scienza per comprovare accadimenti totalmente irrazionali».
Lo strumento tecnologico ha un ruolo fondamentale non soltanto nel tuo lavoro ma è anche profondamente legato all’icona della Nostra Signora di Guadalupe. Intanto perché la sua immagine impressa può considerarsi un esempio di fotografia e poi perché solo grazie a apparecchi digitali avanzati si è potuta verificare la presenza di figure umane nella sua pupilla. È per questo che hai scelto di scartare la sfera irrazionale e di porti da un punto di vista completamente oggettivo?
«La scelta di affidare a un software la lavorazione di un’immagine simile è stata un’operazione istintiva, quasi un gioco, il desiderio di mandare in collisione due mondi così opposti. In realtà mi sono resa conto che questo clash non era poi così definitivo come immaginavo. La tecnologia in questo caso permette di entrare dentro un’icona fin nella sua parte più intima, lo sguardo, per mostrarne l’interno. C’è una carica fortemente simbolica in tutto questo. Il risultato è sì un oggetto finito, ma che conserva una sfera di potenzialità e di immaginazione».
Attraverso un software 3D hai deciso di ricreare l’immagine impressa negli occhi dell’icona. Puoi spiegarci nel dettaglio il processo utilizzato?
«Importando in un software 3D l’immagine scelta, in questo caso i due fantomatici riflessi impressi nelle pupille di Nostra Signora, il programma rielabora attraverso un comando automatico una superficie, creando i volumi differenziando delle parti chiare da quelle scure, una sorta di chiaroscuro in 3D».
La scultura 3D creata può considerarsi la materializzazione di un fenomeno sacro, per sua natura effimero. Tuttavia l’esecuzione, lasciata completamente in mano alla macchina, si discosta da qualunque desiderio di riprodurre fedelmente le immagini impresse nelle pupille. Il risultato ottenuto è quello che ti aspettavi?
«Quando un’opera si formalizza nella sua versione definitiva è sempre una sorpresa, non essendo mai totalmente quello che si pensava da principio. Era chiaro fin dall’inizio che il risultato sarebbe stato un altro universo. E poi è stato un lavoro a più mani, e il fatto di delegare la realizzazione a qualcun altro diminuiva ancora di più il mio controllo. Mi piaceva ed era fondamentale quest’impossibilità di previsione puntuale. Non da ultimo la stampa dei due oggetti in un primo momento sembrava impossibile perché costosissima. Il risultato è stato meglio di quanto avessi potuto immaginare».
Hai in progetto di sviluppare ulteriormente il tema delle immagini acheropite? A cosa stai lavorando al momento?
«L’immagine acheropita è inevitabilmente legata a un’idea di fotografia come impressione automatica. In questo momento mi sto concentrando sulla sua natura di oggetto indipendente e quanto più lontano dalla nostra volontà. Vorrei ampliare il lavoro approfondendo questo aspetto».
BIO: Claudia Petraroli (Teramo, 1987) Inizia i suoi studi in storia dell’arte a Roma. Lavora come fotografa indipendente e nel 2014 si iscrive al biennio di fotografia dell’Accademia di Brera a Milano, che segna l’inizio della sua ricerca artistica. Ha sviluppato il progetto La pregunta de sus ojos durante il programma di residenza LIVEstudio3, promosso a febbraio dalla galleria Metronom di Modena. È tra gli artisti selezionati di Giovane Fotografia Italiana, sezione under 35 di Fotografia Europea di Reggio Emilia, in programma dal 5 maggio. Info: cargocollective.com/claudiapetraroli