Siamo nel 1500 e Torquato Tasso si trova è alla corte estense. Ancora non ha scritto la versione finale della Gerusalemme liberata, ma è riuscito a creare un’altra opera, l’Aminta, che potrebbe sembrare un dramma pastorale in realtà è più una favola pastorale. Il pastore Aminta riuscirà a salvare l’amata ninfa Silvia dall’aggressione di un satiro, nonostante ciò lei lo rifiuterà; cercherà di suicidarsi dopo aver erroneamente pensato che Silvia fosse morta sbranata da un lupo, alla fine si salverà e si unirà con la ninfa, coronando così il suo sogno d’amore.
L’Aminta diventa il soggetto per uno spettacolo multimediale degli artisti Luca Brinchi e Daniele Spanò che ne curano regia, scene, video e luci. Lo spettacolo, Aminta S’ei piace ei lice, è stato commissionato dalla Sagra musicale Malatestiana che ogni anno produce un progetto speciale affidando un testo antico ad artisti contemporanei, ha avuto il suo debutto a Short Theatre nel 2016, mentre adesso è in scena al Teatro India di Roma.
Brinchi simula di tatuarsi su di un dito il titolo S’ei piace ei lice mentre tre personaggi, Tirsi, Dafne e un satiro, di cui si vedono i volti proiettati su tre teli verticali, introducono la storia con le parole del Tasso. La storia si ambienta nell’età dell’oro dove non c’erano leggi o regole che costringessero a un comportamento sociale e tutto si basava sull’istinto, da cui il motivo del coro S’ei piace ei lice. Dalle parole di Brinchi: «L’idea del tatuaggio nasce dal voler rappresentare un ricordo indelebile com’è il ricordo dell’età dell’oro narrato dai tre personaggi». Quando i teli cadono, svelano due schermi verticali dove Silvia a sinistra e Aminta a destra si confrontano nel confessarsi le loro inclinazioni: Aminta l’amore che ha verso di lei e Silvia l’appartenenza ai boschi e alla dea Diana. Attraverso voci che scaturiscono da due altoparlanti ci si inoltra in una serie di rimandi concettuali e narrativi: ad esempio rumori di uccellini e di vespe accompagnano varie frasi fra cui quella di Silvia diretta ad Aminta: ”donde nasce il tuo odio?”, ”dal suo amore”. Ma Aminta non si arrende, scoprirà in quale fonte si bagna Silvia e con parole simili a quelle che indurranno anche il satiro a cercarla lì.
Su di uno schermo, immagini di lei alla fonte sono accompagnate da suoni disturbanti e distorti che si alternano a sospiri e, a un certo punto, occhi proiettati guardano furtivi e inquietanti ciò che accade: sono quelli del satiro che la vuole per sé? La scena accoglie il performer che rappresenta il satiro, è un culturista: ”cosce, di virilità e robustezza indizio”, dalle parole recitate, e mentre lui si cosparge di grasso nero si vede il video di Silvia che lotta per liberarsi da una corda che la lega ad un albero, poi a tratti luci bianche accecano, a voler simboleggiare una violenza, mentre una voce amplificata ricorda quella di un orco. Eppure quando Aminta la salva, lei gli risponde: ”Non mi toccare, sono di Diana”.
In un climax successivo, le immagini di un lupo testimoniano l’idea di Aminta che Silvia sia stata sbranata dall’animale e ciò lo condurrà a uccidersi buttandosi da un burrone. La rappresentazione dei due artisti finisce così, ma è stato modificato il finale rispetto a quello del Tasso che vedeva Aminta salvarsi grazie a un cespuglio e unirsi così con Silvia. «Questa scelta – motiva Brinchi – è dovuta alla volontà di trasformare in dramma pastorale quella che è una favola pastorale perché riteniamo che, soprattutto il finale, fosse dovuto più a un’influenza cortigiana estense che a una precisa volontà del Tasso». Come possiamo considerare questa scelta? Perché bisogna ricordare la fortuna positiva del poema all’epoca, fortuna positiva che ha continuato ad avere nei secoli a venire, proprio per le sue peculiarità.
Fa parte dell’opera il fatto che in varie situazioni e in vari personaggi si ritrovino costumi in voga alla corte estense e, a questo proposito Daniele Spanò dichiara: «Il personaggio di Aminta si rifà alla tipologia tipica del cortigiano di quel periodo, mentre il satiro è il vero rappresentante dell’età dell’oro». Il pastore ed il satiro, comunque, simboleggiano l’amore secondo le due possibili facce, il primo quella sentimentale, il secondo quella istintuale, e «la violenza potrebbe essere sia psicologica, dell’uno, sia fisica, dell’altro» come commenta Spanò. E nella figura femminile di Silvia si ritrovano sia l’aspetto fisico, la voglia di darsi ed essere presa, sia l’aspetto sentimentale che fa finire la storia originaria in modo che l’amore più puro, romantico, trionfi.
Fra le varie sfaccettature dell’opera, su tutte sarebbe troppo lungo qui soffermarsi, sicuramente l’aspetto politico nel rapporto con la corte estense è fondamentale per capire il contesto in cui si origina il poema, esso però si fonde con l’aspetto pulsionale che è parte essenziale nella riflessione sulla civiltà intera e la perdita dell’innocenza. A parte le possibili interpretazioni dell’intreccio narrativo, lo spettacolo è emotivamente coinvolgente. L’orchestrazione dello spazio scenico è equilibrata quando serve e squilibrata quando ve n’è necessità, in un altalenare di picchi simbolici. E i vari medium sono utilizzati in maniera organica anche quando convivono creando uno spaesamento sensoriale.
Fino 29 gennaio; Teatro India, Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma; info: www.teatrodiroma.net