Parla Bizhan Bassiri

«Una goccia che cade in un mare immenso senza disperdersi, come fosse una perla che scende quieta negli abissi per toccare le profondità di una cultura infinita». Parla Bizhan Bassiri, scultore e poeta iraniano che aveva lasciato 40 anni fa il suo paese per trasferirsi in Italia, descriveva così il suo ritorno alla terra d’origine, un anno fa, nella presentazione della sua prima mostra iraniana, Motlaq. A un anno di distanza, il museo di arte contemporanea di Tehran per scelta del direttore Majid Mollanoroozi, gli ha affidato il compito di rappresentare il paese nel padiglione che parteciperà alla prossima biennale di Venezia a Palazzo Donà delle Rose. Bassiri è a Tehran per concordare gli ultimi dettagli di un progetto che lo vedrà ambasciatore nel mondo dell’arte iraniana. Un percorso ambientato nei luoghi di appartenenza dell’artista, prima di giungere a maggio a Venezia con la mostra Tapesh alla quale sta lavorando in questi giorni insieme a Bruno Corà, suo curatore e presidente della Fondazione Alberto Burri.

«Cercavamo un’ artista che avesse una caratura internazionale da presentare a Venezia perché sappiamo che la biennale dà un’importanza estrema all’apertura dei paesi alla visione contemporanea – dice Mollanoroozi in questa intervista rilasciata insieme a Bassiri nel suo ufficio al Tmcoa, al centro della città. I lavori di Bassiri rispondono a questi requisiti e in più sono permeati dall’influsso della cultura e della bellezza italiana».

Dal ‘75 fuori dall’Iran, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Roma, per lei è stato un po’ come andarsi a riprendere il figliol prodigo per riportarlo alle sue origini?
«Fuori dall’Iran vivono 10 milioni di iraniani. Questa sarà l’occasione per iniziare a dialogare con tutti quelli che sono fuori dal paese. La cultura, il pensiero, l’arte è un filo rosso che tiene legate queste persone. Il nostro lavoro è proprio quello di riportarle alle loro radici. Se dovessi fare un paragone parlerei di un albero che ha i rami che si slanciano nel cielo ma le sue radici restano nella terra. Così le radici degli iraniani che sono andati fuori dal paese appartengono a questo giardino».

In effetti le tracce lasciate sul terreno nel percorso di avvicinamento attraverso l’Iran e l’Italia all’evento della biennale sottolineano la sua doppia identità. È un viaggio a ritroso il suo?
«Il tema centrale è proprio il contrario: ho bisogno di andare sempre avanti in un fluire del tempo attraverso un tunnel nel quale niente si perde, ma invece la conoscenza e la consapevolezza accumulate nel passato, confluiscono nel presente e mi accompagnano nel futuro. Per questo ho scelto come punto di partenza del mio percorso un posto in mezzo al deserto, Chogha Zanbil, scenario per la presentazione della partecipazione iraniana alla biennale l’8 marzo. Si tratta del primo sito riconosciuto in Iran come patrimonio Unesco, nella provincia del Kuzhestan, dove c’è una delle ziqqurat più antiche esistenti al di fuori della Mesopotamia. Elemento fondamentale, Noor, la luce che attraversa i luoghi, alla quale ho dedicato già lo scorso anno una mostra all’AunGallery di Tehran».

Dal deserto il giorno dopo, 9 marzo, l’itinerario persiano si sposterà ad Abadan, città dell’Iran sud occidentale, nota fin qui, più che altro, per la sua raffineria di petrolio tra le più grandi al mondo. Come mai questa scelta?
«Ad Abadan l’ installazione della mia opera Il Tempio della sorte resterà fino alla fine della biennale, inaugurerà il nuovo museo di arte contemporanea, costruito più di 20 anni fa, ma mai aperto fino ad oggi. L’operazione a cui darò avvio ha l’ambizione da parte delle autorità locali e del museo di Tehran di diffondere la cultura dell’arte contemporanea, contrariamente a quanto è avvenuto negli ultimi anni, anche nei posti più remoti. A Minu Shar, poi, si svolgerà una performance, Il Sarcofago un requiem composto da Stefano Taglietti, compositore e musicista che collabora con me dal ’94, che farà rivivere al pubblico il lamento della nave incagliata nel fiume Arvand Saqir prima di smaterializzarsi e sparire nel nulla, durante la guerra tra Iran e Iraq. Infine nella moschea di Rangooniha vicina al fiume Arvand sarà esposta la mia opera la Riserva Aurea, che faceva parte della mostra organizzata pochi mesi fa al Macro di Roma».

Il percorso di avvicinamento arriverà poi sul territorio italiano: Roma, Todi, Chiusi. Che ambientazioni ha scelto insieme alla Fondazione Volume! di Roma per far parlare i suoi luoghi di elezione, dove vive e lavora?
«A Roma un convento dove alla luce della luna si diffonderà nell’aria una suonata di Taglietti. A Todi una chiesa del 1200 e a Chiusi, infine, sarà il museo etrusco a ospitare le mie opere. Tutti spazi che parlano da soli, elementi della conoscenza che servono ad annullare le distanze e a far restare nel tempo la mia contemporaneità».

Tapesh è il titolo della mostra che parteciperà alla biennale in maggio a Venezia a Palazzo Donà delle Rose. Che cosa si aspetta?
«Sarei molto soddisfatto se lo spazio nel suo insieme suscitasse al visitatore un’emozione nel profondo del proprio cuore, non una lettura critica: Tapesh sta a significare proprio questo: è il battito del cuore, quando l’emozione prevale sulla ragione e genera la visione».

L’ultima domanda è per Mollanoroozi: la mostra in corso in questi giorni al museo, dal titolo The Sea Suspended rappresenta tutti i paesi arabi compresi l’Arabia Saudita e l’Iraq. È la lungimiranza dell’arte che fa superare gli steccati?
«Quella dell’Iran e i paesi arabi è una storia lunga, abbiamo avuto scambi culturali infiniti nella storia. La cultura araba ci ha arricchito e noi stessi abbiamo avuto influenza sulla loro. Tutt’oggi nelle aste, nelle fiere, nelle gallerie gli artisti itaniani sono presenti insieme a quelli arabi, senza che questo faccia notizia. Il valore culturale di questa mostra sottolinea come l’arte sia al di sopra delle questioni politiche. Vogliamo trasmettere ai ragazzi che vengono a visitare l’esposizione questo tipo di pensiero».

Bruno Corà, presidente della Fondazione Burri e curatore delle mostre di Bizhan Bassiri parla del suo sodalizio trentennale con l’artista e dell’impegno per la Biennale di Venezia.

Un artista come Bizhan Bassiri dal momento in cui ha riconosciuto la sua vocazione si è dedicato con tutte le sue forze alla realizzazione della sua opera. Essa è unica e si compie attraverso varie fasi nel corso del tempo. È in tale processo che un artista mette a punto il suo linguaggio che altro non è che l’essenza di quella vocazione che trova forma. La crescita di Bassiri si può osservare nello sviluppo del suo lavoro, nella diversità delle forme e dei modi impiegati per esprimerle, nei materiali e negli strumenti come nelle tecniche impiegate per dar corpo alle opere. Un tempo lungo che tuttora si manifesta sempre, come nel primo momento e nella prima poesia scritta.

L’incarico di rappresentare il proprio paese d’origine suscita in un artista il sentimento di responsabilità pubblica non diverso tuttavia da ogni altro momento in cui egli decide di mostrare le sue opere durante altre occasioni. Stavolta per Bassiri, di fronte a un potenziale pubblico di centinaia di migliaia di visitatori, in una delle rassegne d’arte più importanti del mondo, si tratta di rendere evidenti le sorgenti, i principi generativi e le creazioni che lo riguardano. Esse, pur essendo molteplici, si possono riassumere in alcune essenziali entità. Anzitutto, alla base di ogni sua opera vi è un impulso riferibile all’intuizione, dunque a ciò che in altri ambiti, come quello poetico, si chiama illuminazione. In ogni opera si condensa un evento poetico.  Le opere, quando trovano il loro luogo creano una spazialità arcana che si coniuga con l’ambiente che ne viene trasformato. La grande installazione che verrà realizzata  a Venezia nella Biennale è la conseguenza di un’ampia visione plastica che mette a fuoco i punti nevralgici della poetica di Bassiri: il pensiero affermativo poetico di natura magmatica, la nozione di destino o sorte, la trasformazione della materia in luce, l’annullamento del tempo nell’opera che è anche liberazione dall’enigma dell’esistenza umana nel cosmo.