Calamita/à

Nomen omen dicevano i latini per indicare come il destino fosse racchiuso in un nome. Ma se questo è vero, funziona anche il contrario: dato un destino esiste un nome perfetto per racchiuderlo. La prima mossa artistica di Calamita/à è nella scelta del nome, appunto. Un gesto quasi duchampiano, (ricordate la pala del francese in vetrina titolata Anticipo per il braccio rotto?) un’interpretazione fortissima sull’oggetto che si ritrova tagliato da un nuovo sguardo. La seconda mossa è l’ossessione. Ma andiamo per punti, cominciamo dalla fine. È aperta fino al 3 dicembre l’esposizione ospitata dalla galleria Matèria e dedicata a Calamita/à. Occasione della mostra, la presentazione del primo catalogo, The Walking Mountain, del progetto realizzato superando il goal sul crowdfundign Kickstarter. A curare il percorso nello spazio romano sono gli stessi fondatori di Calamita/à: Gianpaolo Arena e Martina Caneve.

Descrivere il progetto come fotografico sarebbe, per citare Marracash, ”guardare una natura morta e dire che è soltanto frutta”. Nato nel 2013 si è imposto da subito lo scopo di studiare un territorio preciso, di più, di indagare su un evento storico nel territorio dove è avvenuto. L’evento è la notte del 9 ottobre 1963, il territorio è un piccolo centro in provincia di Pordenone, Longarone, se ancora non l’aveste capito stiamo parlando della diga del Vajont. Soffiano sulla polvere accumulata in cinquant’anni, trovano un nuovo modo di indagare sulla faccenda, inventano un nome bellissimo. È un accento che cambia il concetto sulla parola e la trasforma da un luogo che attrae come una calamita a un luogo tristemente famoso per la storica calamità che l’ha invaso. È su questo pendolo che si muove la ricerca del progetto, da un lato l’ossessione che dicevamo sul tema, dall’altro un indagine sul fenomeno naturale.

La prima porta a scoprire livelli narrativi che si sommano come strati di un romanzo corale dove trovano posto le microstorie degli abitanti e la macrostoria dello Stato. La seconda come una cornice immensa è l’inizio e la fine di ogni parola che viene raccontata. Arena e Caneve capiscono che per vedere il dramma in una nuova luce servono nuovi occhi e selezionano e chiamano una cascata di fotografi nazionali e internazionali a interagire e lavorare sul Vajont. Il risultato fino a poco tempo fa era un sito, dove il tutto veniva raccolto, sito al quale ora si aggiunge un catalogo, diviso in tre parti, concettualmente e fisicamente, che seleziona alcuni degli autori, sceglie delle interviste dal portale e apre con materiale d’archivio.

Due, invece, sono le sezioni della mostra romana, la prima, nella prima stanza, funziona come un’introduzione e presenta al visitatore il campo d’azione. Foto aeree in bianco e nero scattate subito dopo il disastro si alternano a immagini a colori e coprono un’intera parete della galleria per dare una componente visiva del territorio trattato. Giustapposte troviamo foto recenti, alcuni dei lavori realizzati dagli autori durante la loro permanenza nel Vajont in un puzzle temporale ardito ma riuscito. Completa l’introduzione nella prima stanza una grafica firmata Latitude Platform che rappresenta il movimento del lago artificiale, chiuso dalla diga, dopo il crollo di una parte del monte Toc, evento scatenante della tragedia. La seconda sala della galleria propone una selezione di lavori provenienti dalla collezione accumulata in questi tre anni. Sono circa venti fotografi, che presentano altrettante visioni sul territorio, costellazioni di temi impensabili considerando un così ristretto vincolo territoriale e narrativo.

Sarebbe bello se uscendo dalla mostra il visitatore provasse un senso di ammirazione e paura nei confronti della natura, nei confronti dell’opera umana. Se uscendo sentisse anche il peso della storia e la necessità di un ricordo per non far svanire come in un’eco questa storia fra le montagne. Sarebbe bello e ad alcuni è successo.