Intervista con Kate Steciw

Roma

L’artista statunitense Kate Steciw fa parte di quella corrente che oggi viene definita post-internet art, un movimento che analizza equilibri e interazioni tra la società e internet. Con la sua ricerca, Steciw esplora un paesaggio percettivo mutevole, in bilico tra reale e digitale, e lo trasforma in opera d’arte.

Qual è la pratica essenziale alla base del tuo processo creativo? «Se mi avessero posto questa domanda un anno fa, avrei probabilmente risposto che il mio lavoro era per la maggior parte elaborato su Photoshop, ma con gli anni la mia ricerca è cambiata. Ho lavorato a lungo come commercial retoucher con un interesse per le immagini in post produzione, intrigata dal potenziale creativo di Photoshop e di altri software di editig. Di recente ho incorporato immagini mie, stock imagery e screenshot nel tentativo di renderle il lavoro più personale. Voglio collegare ciò che vediamo ogni giorno nelle pubblicità e attraverso i media con le numerose immagini che scattiamo con cellulari o con altre fotocamere. È diventato sempre più importante creare una connesione tra i diversi supporti e la maniera per focalizzare l'attenzione in cui tutti i giorni produciamo e consumiamo immagini di ogni tipo. Per rispondere alla domanda: è la fotografia, mia e di altri, il punto di partenza del mio lavoro».

Come scegli le immagini su cui andrai a lavorare e quando arriva il momento in cui capisci che l’opera è completa e il processo di riformulazione è terminato? «In maniera istintiva, seleziono quelle che per qualche motivo attirano la mia attenzione oppure  scelgo in base a ricordi, soggetti, composizioni oppure ai colori e texture, facendomi guidare dalle emozioni. In entrambi i casi, si tratta della mia risposta all’impulso di catturare o collezionare immagini e al desiderio di materializzarle. L’abitudine di collezionare riflette moltissimo la nostra maniera di porci oggi davanti alle immagini, possiamo scattare, salvare o archiviare, ma abbiamo la possibilità anche di scaricarle, pinnarle, postarle o re-bloggarle. In pratica non sento mai di arrivare a una soluzione definitiva, metto per un po’ l’ opera da parte. Sono sempre alla ricerca di modalità di lavoro che permettano di interfacciarmi in modo più fluido con le immagini, attraverso lo spostamento o il riordino dei layers in Photoshop, o attraverso la riconfigurazione e il riposizionamento le parti dei lavori più recenti ancora in sospeso: quanto più libero e meno stabile è il lavoro, tanto più per me ha senso. Suppongo che questo sia tipico della natura mutevole del mondo digitale, su Tumblr, Instagram o qualsiasi altro social tutto può essere sempre editato o omesso a discrezione degli user. In questo senso, mi piace mantenere un approccio da utente».

Le immagini che crei vanno oltre l’esperienza online. Quale nuovo significato vuoi suggerire? «Principalmente cerco di creare un’esperienza statica e materiale che rifletta la natura della nostra esperienza online, ovvero la forza delle immagini e l’impulso di ordinare in qualche modo il loro flusso. Nell’online, infatti, la mancanza di un output definitivo come la stampa apre le porte a una maggiore possibilità di materializzazione. Abbiamo bisogno di una pausa nel consumo compulsivo, di dare forma fisica in qualche modo alle nostre immagini. Mi sento totalmente libera di creare un prodotto che ci regali quella pausa richiamando, allo stesso tempo, la nostra esperienza iconografica nel regno digitale. L’azione che ne risulta, in questo modo, è goffa ma richiama il nostro modo di porci davanti alle immagini. Sappiamo di poterle conservare ma non sappiamo fino a che punto, perché non abbiamo il completo dominio sulla tecnologia. Sappiamo come catturarle ma ne scattiamo così tante da non riuscire nemmeno a vederle, archiviarle o condividerle tutte. Infine, amiamo salvare immagini che ci capita di vedere e ci provocano un’emozione, ma cosa ne facciamo? Qual è il senso?».

Sono maturi i tempi per trascendere il fisico e il digitale? «Penso di no. Credo che ci troviamo in una congiuntura peculiare, molte persone ricordano i tempi in cui il vasto mondo digitale non era a portata di mano e ora c’è una meravigliosa disconnessione tra i ricordi del pre e del post internet. Nell’evoluzione delle nostre tecnologie, momenti come questi ci regalano una prospettiva nuova e stupefacente, una pace che segna il confine del gap percettivo tra questi due mondi. In questo senso, mi sembra un momento particolarmente umano».

Qual è la natura di questo nuovo spazio ibrido, nello spazio tra realtà e media? «Penso che ci permetta di avere un’esperienza fluida e liberatoria e ci consenta di sperimentare un senso di realtà più diffuso e stimolante. Mi sento come una donna della Preistoria rispetto a questo paesaggio percettivo mutevole, c’è un senso di urgenza nello sforzo di rappresentare in qualche maniera la mia realtà».

È vero che senza le gallerie d’arte, la post-internet art non esisterebbe? «Sì, abbiamo bisogno di un’esperienza fisica per dare un senso al modo in cui le tecnologie hanno alterato le nostre percezioni».

BIOGRAFIA

1978
Nace il 21 maggio in Pennsylvania
2010
Pubblica il suo primo libro, The Strangeness of this idea
2011
Inaugura Love My Way, la sua prima personale, alla Primary Photographic Gallery di New York
2013
Inaugura Debaser, una combinazione di sculture e lavori fotografici nello spazio Elaine Levy. Project a Bruxelles
2014
Inaugura la sua prima personale italiana, New Custom Wall Art alla Galleria Annarumma di Napoli