Intervista con Andrea De Stefani

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

Poeta veneto, Andrea Zanzotto, esordisce con la raccolta Dietro il paesaggio. Stessa regione, nome e intenti per De Stefani. Le installazioni dell’artista sono una ginnastica dello sguardo, una sintesi del suburbano, l’impalcatura essenziale e violenta che sembra reggere il paesaggio. Paesaggi secchi, Dry Landscape, come li chiama lui, sono un esercizio per vedere il quotidiano nella sua banalità, per non passare lo sguardo indifferenti nemmeno sopra una lattina sull’asfalto. Una visione antropocentrica sostiene l’indagine a cominciare dal rapporto artificiale-naturale: «Fuori dalla mia finestra – parla su Skype De Stefani – nella provincia di Vicenza, dove finisce una zona industriale quasi sempre comincia un terzo paesaggio in cui la natura cerca di riprendersi ciò che le è stato tolto. È un campo intermedio segnato dalla fusione dei due. Lo vedo tutti i santi giorni: qualcosa che non è più natura e non ancora città o industria. È in questi spazi che trovo un serbatoio enorme di informazioni. Riesumo degli elementi su cui lavoro lungo il letto di un fiume, a valle. Questi oggetti, naturali e artificiali, si mescolano grazie alle correnti d’acqua. È sorprendente come materiali diversi riescano a inglobarsi fra loro, c’è dello humor nero in certi esiti formali».

Questa fusione c’è, nelle tue installazioni.
«Sì, a vari livelli è una delle componenti del mio lavoro. L’asfalto l’utilizzo non solo per il suo aspetto. Nero, brillante, al limite del kitsch, può sembrare prezioso ma è un composto povero, tanto che è il materiale che più spesso calpestiamo. Ma lo uso anche perché parliamo di un conglomerato a base di sassi e bitume, perché parliamo di natura. Il tessuto più crudo della città è la natura, è una roba che non pensi quando viaggi in autostrada. Ho utilizzato diverse volte anche il legno di gelso, le cui foglie in aperta campagna nutrono i bachi da seta. Una caratteristica che pone il materiale naturale alla base di un processo industriale. Altre volte, invece, forzo incontri, come tra vernice da carrozzeria e tronchi di legno. Per quanto i due elementi convivano nel medesimo paesaggio, la loro fusione non è mai spontanea, è il risultato di un accidente, o incidente, e sono io lo stronzo che ha spento il semaforo all’incrocio».

Materiali che presenti in forme geometriche come a riportare ordine nel caos.
«Non è la mia volontà in particolare, è una volontà umana. In certe occasioni guardo i fatti, mi sforzo di astenermi dalle interpretazioni e cerco un punto di vista oggettivo. La geometria è l’impronta che l’uomo ha lasciato sul paesaggio. Da quando ha cominciato a coltivare ortaggi, nel momento in cui ha deciso che era indispensabile misurare ogni cosa, ha inciso un segno sul mondo. È una necessità umana che voglio riportare ed enfatizzare nel mio lavoro. Ai miei occhi è evidente: la geometrizzazione è una violenza razionale che in natura non è contemplata. La forma, poi, ha le sue regole e parla così come lo fa la materia: una punta affilata di 15 metri che ti guarda dritta in mezzo agli occhi risulta vagamente minacciosa, non serve che lo spieghi Wertheimer».

Nella definizione di paesaggio oramai dobbiamo considerare anche quello virtuale.
«Sono d’accordo e ci sono artisti che stanno indagando questo campo, sono sempre approcci al reale. Personalmente ho bisogno di camminare, di toccare gli oggetti, di raccoglierli da terra, tutte quelle cose che un genitore dice a un bambino di non fare, le faccio. Le mie origini provinciali e la mia formazione da writer mi ancorano tutt’oggi al desiderio di relazionarmi fisicamente alla materia. È più potente quando a parlarci di paesaggi virtuali è una generazione di ragazzi dalle radici intrecciate, cresciuti in qualche megalopoli, che passano le loro giornate tra shopping mall e social network».

In Italia, quindi, siamo distanti da questa cultura?
«No, non siamo così distanti, questa cultura viaggia su binari orizzontali. Per semplificare, è come la storia del rap: i Colle Der Fomento, per quanto ok, non sono i Public Enemy. Le condizioni in cui una cultura nasce sono fondamentali, è una questione di contingenze: chi è nato a Tokyo nel 2000 vive e cresce in modo diverso da come mi sono formato nella provincia di Vicenza negli ’80/‘90. È chiaro che tutto può essere assorbito e digerito, ma parlo di aderenza ai contesti, parlo di incisività nel veicolare un’esperienza o un modo di stare al mondo».

Nella tua pratica però l’eterogeneità e la stratificazione rimandano un po’ a quel mondo.
«Esistono dei punti di contatto, sempre di realtà parliamo. Raccolgo e remixo quello che incontro sulla strada, dalla radice di un albero centenario al volto denaturato di qualche modella da billboard, dagli arredi urbani scassati, alle luci a led dei centri massaggi cinesi. Il paesaggio è la quintessenza della stratificazione ed è il mio playground, è inevitabile per me inglobare le manifestazioni di un’estetica iper-attuale».

Ultima domanda, il blu che spesso metti sulle pareti. Cos’è?
«Lo chiamo Innercity Blues ma si chiama carta Blue Back. Anche in questo caso, oltre al colore è la specificità del materiale che mi attira.Viene utilizzata come supporto di stampa per le insegne pubblicitarie, il retro azzurro funziona da schermatura: in caso di sovrapposizione di poster impedisce all’immagine sottostante di emergere sulla successiva. Capita spesso di vedere delle fette blu del genere. Sono sfondamenti monocromatici tra i convulsi pattern urbani. A fatica, in città, si riescono a scorgere prospettive orizzontali libere. Ogni tanto mi capita di incrociare queste brecce artificiali che richiamano l’apertura di un paesaggio reale senza intralci urbani. E allora respiro. È un pensiero stupido però, non lo mettere».

BIO
1982
Nasce il 15 marzo ad Arzignano, Vicenza, dove vive e lavora

2007
Si laurea in Arti visive e dello spettacolo all’università Iuav di Venezia, dipartimento di Design e arti

2010
Fonda DNA, uno spazio/opera di natura sperimentale a Venezia e prende parte a mostre collettive tra cui Persona in meno alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Solar Skill alla Fluxia Gallery

2013
Inaugura la sua seconda mostra personale a Fluxia Gallery, si trasferisce a Melbourne per un programma di residenza al Gertrude Contemporary

2015
Partecipa a diverse collettive: This place i really nowhere (Jupiter Woods, London), Milk Revolution (American Academy of Rome), Inclinazioni (sezione In Mostra, Artissima, Torino). È nel programma di residenza della Fondazione per l’Arte (Roma) e inaugura una personale nello spazio Almanac Inn di Torino

Info: http://andreadestefani.com

PROGETTI
Nocturama è stata l’ultima personale di Andrea de Stefani ospitata nello spazio no profit torinese Almanac Inn. Una mostra in cui le installazioni dell’artista sono l’illuminate da una luce artificiale copiata da quella delle città alla scomparsa della luce naturale. Un’occasione per riflettere sulle alterazioni che i lampioni metropolitani provocano sul paesaggio notturno, soprattutto un ulteriore tentativo di uniformare l’interno della galleria con l’esterno. La progettazione di una rotatoria in provincia di Vicenza, invece, impegna De Stefani nel suo primo progetto in esterno: «No so se andrà in porto. Mi sto mettendo alla prova ma penso che potrebbe funzionare. È fare il verso a quello che già esiste. Tutto sta a esagerare queste violenze, queste forzature, questi incontri che porto a compiersi normalmente nelle mie installazioni». 

COVER
Shadowplay (studio per Nocturama) è il lavoro firmato da Andrea De Stefani per la copertina di Inside Art 105. L’opera è in vendita su Inside Art gallery in cinque esemplari (di cui ne rimangono ancora tre). Una lama gialla al tungsteno taglia la fotografia in bianco e nero di una strada suburbana riassumendo la poetica dell’artista.